Clifford Simak - La strada dell'eternità

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La strada dell'eternità: краткое содержание, описание и аннотация

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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— Lasciamo perdere. Non riesco ad avere da voi una risposta sensata. Desidero ritrovare il mio amico, e voi dite che per farlo devo parlare con la rete. Per favore, spiegatemi come si fa.

— Sarò lieto di spiegarvelo — disse l'alieno. — Tutto a tempo debito. Ma prima ho una missione da compiere, e una volta compiuta quella…

Allungò il braccio e afferrò uno dei tubi spuntati sulla rete. — Abbassate la testa e tenetevi stretta — disse.

Non successe niente, e infine Enid si decise ad alzare la testa e ad aprire gli occhi. Il pianeta aveva dei colori che andavano dal rosa al violetto, e il cielo era verde oro.

— Visto! — esclamò Muso di Cavallo, trionfalmente. — Siamo arrivati, e non ci è successo niente!

Enid tirò un respiro, dapprima con cautela, e poi a pieni polmoni. L'aria sembrava a posto. Non la fece tossire; non la soffocò. Non aveva neppure cattivi odori.

— Che cosa avete? — le domandò l'alieno. — Siete malata?

— Niente affatto — disse Enid. — Ma il cielo non può avere colori come questi. Non esiste un cielo verde. Il colore del terreno è già abbastanza brutto, anche se niente gli vieta di essere rosa e violetto, ma il cielo non può essere verde…

E invece lo era, pensò. Lei era viva, e tutto era a posto: con l'unica lacuna che non sapeva dov'era.

Muso di Cavallo scese lentamente lungo la rete, che con la sua parte più bassa sfiorava il livello del suolo.

— Non mi occorrerà molto tempo — le disse. — Ritornerò subito. Aspettatemi qui. Non allontanatevi. Restate vicino alla rete.

Il terreno era rosa e viola. C'erano alberi viola e alberi rosa, e a dispetto del suo colore, l'area era brulla e priva di connotati: lo giudicò il paesaggio più noioso che avesse incontrato. Si stendeva da tutti i lati fino a raggiungere un orizzonte velato dalla foschia: un orizzonte che aveva un colore malaticcio, una mescolanza di rosa, verde, oro e viola. A parte qualche albero e un certo numero di montagnole sparse qua e là, il territorio era vuoto. Non c'era niente che si muovesse, né un uccello né una farfalla. Pareva che qualcuno l'avesse svuotato di tutto, per ripicca.

— Dove siamo? — domandò a Musò di Cavallo.

— La sola denominazione di questo luogo — disse l'alieno — è un simbolo su una cartina. Non ho idea di come si pronunci il simbolo. Forse è un nome che non dev'essere pronunciato.

— Ma come siamo giunti qui, senza accorgerci di niente e in un tempo così breve?

— Siamo stati traslati qui — spiegò l'alieno. Raggiunse il suolo e voltò la schiena a Enid, senza più parlare. Si avviò dondolando sul terreno, e la sua ombra grottesca continuò a dondolargli attorno, un po' sfumata ai bordi.

Il sole rosso e rigonfio, sospeso nella foschia verde del cielo, non illuminava le cose in misura sufficiente a dare ombre vere e proprie. L'intero pianeta, pensò Enid, era un po' troppo pacchiano, non dimostrava buon gusto.

Scese un poco più in basso e osservò attentamente il paesaggio. Muso di Cavallo era scomparso in lontananza, e lei era rimasta sola. Sotto di sé non riusciva a distinguere segno di vita, a parte l'erba e gli alberi. C'erano solo il terreno digradante e le rade montagnole.

Scivolò a terra e, con sorpresa, si accorse che il terreno sotto i suoi piedi era solido. Dall'aspetto, Enid aveva pensato che fosse cedevole. Si allontanò dalla rete e si diresse verso la montagnola più vicina. Era molto piccola e aveva l'aspetto di un mucchio di sassi. Lei aveva già visto mucchi come quello nei campi della Terra, dove i contadini ammucchiavano le pietre trovate nei terreni da dissodare. Ma i mucchi visti da Enid erano di pietre opache e di grosse dimensioni, mentre i sassi del pianeta alieno erano piccoli, luccicanti, coloratissimi.

Quando giunse alla montagnola, vi si inginocchiò accanto e prese una manciata di sassolini. Sollevò la mano e la aprì in modo che i sassolini rimanessero posati sul palmo, e se la portò davanti agli occhi. La luce del sole, riflessa dai sassolini, la abbagliò.

Trattenne per un attimo il respiro; poi si rilassò. Non conosceva le gemme, non era in grado di distinguere un pezzo di quarzo da un diamante. Eppure, le pareva incredibile che, con quel fuoco e quella luminosità i sassolini fossero semplici pezzi di roccia. Una delle pietre, grossa come un uovo di gallina, di colore rosso, mandava lampi di luce da uno degli spigoli, dove si era staccata una minuscola scheggia. Poi c'era un sassolino spaccato in due che pareva pulsare di bagliori violacei. Altri avevano uno splendore verde, rosa, ametista, giallo.

Inclinò la mano e lasciò cadere le pietre, che scintillarono come una cascatella. Se si trattava davvero di gemme, dovevano valere una fortuna in certi periodi dello sviluppo dell'umanità. Ma non nell'epoca da cui era fuggita la sua famiglia. A quell'epoca le cose rare, quelle preziose e quelle antiche avevano perso il loro valore. Non c'erano gemme, non c'era il denaro.

Si chiese se Muso di Cavallo conoscesse l'esistenza di quelle montagnole di gemme, accumulate con tanta indifferenza, e in così grande quantità, da gente ignota. Certamente no, concluse poi. Muso di Cavallo cercava qualcosa laggiù, ma non le pietre.

Si avviò verso un'altra montagnola, senza fermarsi a guardarla. C'era un mucchio di montagnole dello stesso tipo, tutte simili tra loro a parte la mole. Adesso sapeva che cos'erano e che cosa contenevano. Forse le conveniva allontanarsi leggermente.

Anche se all'inizio non se n'era accorta, Enid presto capì che la zona in cui si trovava era in leggera salita, poiché giunse all'improvviso in una zona in discesa, coperta di strane formazioni: pareti verticali di terra nuda, canaloni profondamente erosi, un gruppo di piramidi con gli spigoli rettilinei e i vertici appuntiti.

Si fermò sul ciglio della discesa e osservò attentamente le piramidi. Le ritornò in mente una frase che aveva letto chissà dove: che in natura non esistevano linee rette. Le linee rette erano artificiali. Quelle piramidi parevano costruzioni architettoniche. Le loro facce parevano levigate da qualche creatura intelligente.

Guardando attentamente, si accorse che le piramidi scintillavano al sole. Si disse che era impossibile, era ridicolo costruire piramidi così perfette servendosi di gemme e di sassolini.

Si avvicinò alla prima, e non ebbe più dubbi. Le piramidi erano fatte di gemme, o di quelle che a lei parevano gemme. Viste a poca distanza, scintillavano di miriadi di luccichii colorati. Si chinò verso la piramide, battendo gli occhi perché i riflessi rossi, verdi e violacei erano intensissimi. Non erano le pietre viola a richiamare la sua attenzione: viola, rosa e verde marcio erano fin troppo abbondanti su quel pianeta. Quel che l'aveva attirata era una pietra gialla, gialla come una primula, calda e luminosa, che le parve talmente bella da fermarle il respiro. Era una pietra grossa come un uovo d'oca e perfettamente levigata, forse dalle acque di qualche fiume che aveva continuato a scorrervi sopra per milioni di anni.

Senza pensare, afferrò la pietra e la sollevò; ma non appena l'ebbe sollevata, l'intera faccia della piramide scivolò a terra come se fosse stata liquida. Enid fece un balzo indietro per evitare di essere travolta da tutti quei sassolini rotolanti.

Si alzò un pigolio di protesta. Enid si guardò attorno per individuare l'origine di quel rumore, e li vide; erano accanto allo spigolo della piramide e la fissavano con degli occhietti bitorzoluti. Stavano in punta di piedi, indignati da ciò che era successo, e i loro morbidi orecchi tondi, simili a quelli dei topi, tremolavano tutti.

Enid osservò meglio le creature. Occhi cisposi, orecchi da topo, muso triangolare dall'aspetto soffice, ma corpo spigoloso e duro, che le ricordò un ragno intagliato nel legno. Intagliato nel legno stagionato che si raccoglie sulle rive dei fiumi: legno grigio, pieno di nodi, con forme contorte, ma con ogni gomito levigato e luccicante, come se qualcuno fosse stato per lunghe ore a lucidarlo.

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