Clifford Simak - La strada dell'eternità

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La strada dell'eternità: краткое содержание, описание и аннотация

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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Ma non c'era nessun angolo. Lui si trovava sempre nello stesso posto. Allora si rilassò e ricadde di peso sul terreno.

Si svegliò dopo molto tempo. Le stelle splendevano ne cielo. Dal basso saliva un vento gelido: era mezzo congelato. Per un momento non capì dove si trovasse, poi gli riaffiorò in mente la sua situazione. Era intrappolato su quella collinetta. Non riusciva a liberarsi. Era destinato a morire laggiù. Era immobilizzato laggiù, ferito e assetato, e gelato fino alle ossa.

Una forma grigia, illuminata dalle stelle, si mosse accanto a lui. Era il lupo. Lo guardò ed emise un gemito.

— Promettimi una cosa — gli disse Boone. — Una cosa sola ti chiedo. Aspetta che sia morto, prima di mangiarmi.

7. Enid

Niente era andato per il giusto verso, pensò Enid. Non avrebbe dovuto cercare di guidare un viaggiatore. Avrebbe dovuto capire di non avere la competenza necessaria. Eppure, che cos'altro avrebbe potuto fare? Quando era ancora a Hopkins Acre, era stata lasciata indietro per aspettare Boone, e non aveva avuto il tempo di scegliersi un punto di destinazione. Aveva semplicemente messo in moto il viaggiatore: non aveva avuto il tempo di fare altro. Poi, più tardi, si era ripresentata la stessa situazione. Boone le aveva gridato di salvare il viaggiatore, e lei era scappata. E adesso si trovava a quasi un milione di anni nel futuro rispetto a Boone… e non aveva la minima idea di come ritornare a prenderlo. Era colpa di Horace, si disse. Di Horace, che era così magniloquente nel fare i progetti, e che li faceva così male. Su ciascun viaggiatore ci sarebbe dovuta essere una persona capace di pilotarlo… ma soltanto in due di loro, pensò, erano in grado di farlo: David, che era molto bravo, e Horace, che era solo mediocre. Emma e Timothy non sapevano come usare quelle macchine.

Se non fosse arrivato il mostro, se avessero avuto il tempo di prepararsi, le cose sarebbero andate splendidamente. Alla partenza, avrebbero deciso la loro destinazione, e probabilmente si sarebbe occupato David di programmare ciascuno dei viaggiatori, in modo che arrivassero tutti nello stesso luogo e nello stesso tempo. Ognuno avrebbe conosciuto la destinazione, e il viaggio si sarebbe svolto in gruppo. Se qualcuno avesse programmato in precedenza il suo viaggiatore, la stessa Enid non avrebbe avuto fastidi. Quello che l'aveva rovinata, era stato il fatto di doversi per due volte lanciare nel vuoto.

Osservò nuovamente il pannello, e vide che la designazione temporale era abbastanza chiara. Ma la designazione spaziale era incomprensibile. Conosceva la data in cui era giunta, ma non la località. L'altra volta era stato Boone a indovinare il luogo d'arrivo, anche se in modo generico. Sul pannello, naturalmente, era segnata anche la destinazione spaziale, ma lei non era capace di leggerla. Le venne in mente, col senno di poi, che avrebbe dovuto prendersi nota della designazione, copiandola dal pannello.

Anche in quel momento, comunque, la designazione spaziale del punto dove erano giunti lei e Boone era memorizzata nel registratore. Si poteva richiamarla sul pannello, ma Enid non aveva idea di come si facesse.

Si appoggiò con la schiena al sedile, stancamente, e continuò a fissare il pannello. Perché, in tutti gli anni passati a Hopkins Acre, non aveva mai chiesto a David di insegnarle a guidare un viaggiatore? David sarebbe stato lieto di farlo: Enid non ne dubitava. Ma non glielo aveva mai chiesto perché non le era mai venuto in mente che, un giorno o l'altro, potesse avere bisogno di usarne uno.

Provò a osservare dallo schermo visivo l'ambiente circostante, ma la prospettiva era limitata, e il panorama non mostrava caratteristiche significative. A quanto pareva, era su un'altura, poiché scorgeva una distesa di montagne, scoscese, in mezzo a cui scorreva un fiume scintillante.

Quindi, pensò, era riuscita a partire e ad arrivare in qualche punto. Nient'altro. Horace ed Emma dicevano sempre che lei era una pasticciona e probabilmente non avevano torto.

Aveva abbandonato nel passato più remoto una persona che era stata gentile con lei, e non era in grado di andare a riprenderla: non si sentiva più di provare. Aveva fatto due salti alla cieca: il primo nel passato, e il secondo, molto più lungo, nel futuro. Una volta Henry era riuscito a trovarli, quando si erano nascosti nell'Europa del Medioevo, ma si era trattato di un compito relativamente facile, paragonato a quello attuale. Forse lei aveva lasciato una traccia, ed Henry poteva seguirla. Ma le tracce erano due, e cosa poteva fare, Henry con due tracce? Senza bisogno di rifletterci sopra, Enid sapeva di doversi fermare dov'era. Se avesse fatto un altro salto, probabilmente si sarebbe perduta per sempre.

Lasciò il seggiolino del pilota e si diresse verso il portello di uscita. Quando lo aprì, udì uno strano suono, simile al ronzio di uno sciame d'api. E una volta discesa a terra ne vide l'origine.

Il viaggiatore era fermo sul fianco di un monte, poco al di sotto della cima. Su un argine, sopra di lei, c'era una fila di gente che camminava, ed era da quella gente che proveniva il suono: molte voci che parlavano insieme.

A destra e a sinistra, fin dove giungeva il suo sguardo, la fila si muoveva lungo il crinale del monte. Era una fila scarsamente omogenea. In certi punti la gente era tutta ammassata, ma in alcuni tratti c'erano solo piccoli gruppi di persone, o persone isolate. Ma tutti quanti camminavano nella stessa direzione, e senza fretta.

Al loro fianco, come se fossero le guide della processione, c'erano strane figure, non tutte uguali. Alcune avevano un aspetto simile a quello degli esseri umani; altre erano estremamente diverse dall'uomo; ma tutte erano in movimento: strisciando, saltando, camminando su un grande numero di gambe, galleggiando a mezz'aria. Alcune volavano.

Enid rimase senza fiato, quando comprese la natura di quelle creature. Alcune di quelle che avevano aspetto umano erano robot, e senza dubbio lo erano anche altre che non lo avevano. Le altre erano alieni. Nell'epoca da cui proveniva Enid c'erano molti alieni che avevano rapporti non sempre comprensibili con gli esseri umani, ma la sua famiglia aveva sempre cercato di avere a che fare il meno possibile con gli alieni.

Enid si allontanò dal viaggiatore e si avvicinò alla lenta e goffa processione, salendo lungo la scarpata. Si trovava in una regione, a quanto vide, di altipiani brulli e aridi. Però, le alture che la circondavano davano un senso di grandezza e parevano protendersi a toccare il cielo che era azzurro e profondo: il cielo più azzurro che Enid avesse mai visto, senza neppure una nuvola che ne macchiasse lo splendore.

Soffiava un forte vento che le agitava il vestito: un vento gelido, che dava l'impressione di avere attraversato interminabili regioni fredde e vuote, ma il sole del mezzogiorno era caldo. Guardando in basso, Enid scorse un liscio prato erboso: fili corti e ordinati d'erba, che non avevano niente di selvatico. Qua e là, sulla cima della scarpata, crescevano alberi la cui forma era stata scolpita dal vento: un vento che probabilmente soffiava laggiù da secoli, se aveva così piegato le piante alla sua volontà.

Nessuno si accorse della sua presenza. Neppure per un attimo il suo arrivo interferì con ciò che stava succedendo.

Che cos'era, si domandò: un rito, un pellegrinaggio religioso, o forse la ricostruzione di qualche antica mitologia? Un'ipotesi valeva l'altra. Ma forse era pericoloso intromettersi, anche se, dal punto dove si trovava lei, le pareva che la processione badasse soltanto a se stessa.

Da dietro di lei, una voce disse: — Siete venuta per unirvi a noi, signora?

Sorpresa, si voltò verso colui che aveva parlato. Il robot era a pochi centimetri da lei. Il rumore del suo arrivo si era confuso con il rumore del vento. Aveva forma umana ed era molto compito. In lui non c'era niente di imperfetto. Era una macchina, naturalmente. Lo si vedeva al primo sguardo. Ma in uno strano modo era nobile e umano. Faccia e corpo erano umani nel significato classico del termine, ed era decorato con gusto: il metallo era inciso con piccoli disegni discreti, che le ricordavano le incisioni sul più prezioso dei fucili collezionati da Timothy. Aveva sulle spalle una porchetta, e sotto il braccio teneva un grosso sacco di farina.

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