Ci fermammo ai bordi del set. Qualcuno ci guardò. Di fronte a noi due uomini, non in abiti da party, stavano discutendo. Erano sui venticinque anni, entrambi con basette e capelli piuttosto lunghi. Indossavano maglioni e calzoni sportivi; una tenuta da lavoro. Ci lanciarono un’occhiata e continuarono a parlare, poi uno dei due, con un portablocco sotto il braccio, si avviò sul set verso noi. Avvicinandosi, inarcò le sopracciglia in una domanda muta, e Marion gli sorrise. — Sono Marion Marsh.
Lui consultò i fogli sul porta-blocco. — Perfetto. — Restituì il sorriso con una certa cordialità. — Il signor Hiller spera di poter parlare con lei, signorina March.
— Marsh. Marion Marsh.
— Marsh. Mi scusi. Spera di poter parlare con lei. Nel frattempo… — L’uomo si guardò attorno, poi indicò una grossa scatola grigia sulla quale era scritto il nome dello studio. Si trovava a fianco del set, a un metro circa dal punto in cui iniziava il pavimento coi tappeti bianchi. — Vuole sedersi lì, per favore? E ci resti. Non si muova. — Sorrise di nuovo e tornò dall’uomo col quale stava parlando. Il signor Hiller, probabilmente.
Gli uomini in tuta avevano finito di spostare il binario. Un paio di operai in camicia verde e calzoni spinsero avanti la macchina da presa fino all’inizio del set, poi la riportarono indietro. Stavano provando il binario e l’angolo di ripresa, con l’operatore che continuava a guardare dal mirino. Poi l’operatore annuì a Hiller, che strillò: — Okay, tutti ai loro posti! — e gli attori cominciarono a dare i bicchieri del caffè a uno degli uomini in tuta verde, che faceva il giro del set con un vassoio. Tutti si sistemarono in coppia e a gruppi; qualcuno sedette, ma la maggior parte degli attori rimase in piedi. Una donna con un vassoio di bicchieri parzialmente colmi di liquore cominciò a muoversi tra la folla. Qualcuno prese un bicchiere; qualcuno accese una sigaretta. Una ragazza con un vassoio col necessario per il trucco andò in giro a controllare gli attori, spruzzò cipria su qualche faccia.
Dopo di che, restammo seduti sulla scatola grigia per tre ore. Il binario venne ancora spostato e la scena fu girata tre volte, con lunghe, lunghe attese fra un ciak e l’altro; non ho mai saputo perché. Dopo due ore, uno degli uomini in tuta verde ci portò due Coca in bicchieri di carta. — Da parte del signor Hiller.
Gli attori, uomini e donne, erano giovani o quasi, e indossavano abiti eccentrici, singolari, esageratamente colorati. Marion li studiava. E a ogni ciak, in piedi o seduti, tenevano in mano il bicchiere, la sigaretta, parlavano, ridevano. Forse per una ventina di secondi. Poi uno degli ospiti, un uomo tozzo e barbuto che parlava con una ragazza, esplodeva in una risata molto sonora; tutti si giravano a guardarlo, e la scena finiva lì.
Un po’ dopo le quattro del pomeriggio la scena terminò per la terza volta, e il regista urlò: — Okay, va bene così. — Sospirò, sbatté le palpebre cinque o sei volte, si fece dare un portablocco dall’altro uomo e lo consultò. Poi guardò noi. Restituì il portablocco e ci raggiunse.
— Adesso giriamo con lei, signorina Marsh — disse, fermandosi di fronte a noi. — Scusi il ritardo. Dovranno vestirla e truccarla, e risparmieremo tempo se potrò parlare con lei intanto che è al trucco. — Fece cenno a Marion di seguirlo e girò un angolo del set, verso la parete dell’edificio e una specie di grossa roulotte montata su cavalletti di legno. Sul fianco c’erano una mezza dozzina di porte, e scalini in legno che portavano alla piattaforma davanti a ogni porta: camerini, probabilmente. Una donna di mezza età li raggiunse. Entrarono tutti e tre in uno dei camerini e chiusero la porta.
Il tizio col portablocco urlò: — Silenzio! Silenzio, per favore! — e dopo che le chiacchiere si furono spente disse: — Va bene. Adesso rigiriamo una scena. La… — Guardò il portablocco. — La ottantuno. Controllate il copione, se dovete. È la scena con la ragazza in abito lungo. — Non accadde nulla. Chiacchiere e sorseggiare di caffè e Coca continuarono, e l’uomo col portablocco si buttò su una sedia e restò a fissare il pavimento.
Il regista e Marion uscirono dalla roulotte. Marion era truccata e indossava un lungo abito blu chiaro, con una corda blu scuro alla vita. Mentre procedevano verso il set, vidi che lei era a piedi nudi. — Tutti ai loro posti — urlò il regista, e gli attori si riposizionarono. Adesso occupavano posti diversi: stesso party, ma un’altra scena. Di nuovo vennero distribuiti i bicchieri e ritoccato il trucco.
Il regista accompagnò Marion sul set. Gli attori, in posizione ma muti, li guardavano. Mormorando istruzioni, Hiller guidò Marion e la sistemò al suo posto. Un attore le si avvicinò, le sorrise e disse: — Bla, bla, bla, bla — e Marion sorrise e disse qualcosa. Venne portata a una seconda posizione. Il giovanotto la seguì. Due uomini che stavano discutendo davanti a un quadro si girarono e si avviarono verso Marion.
Provarono l’intera scena. Alla fine, il regista indicò col piede un punto sul pavimento, e io vidi Marion annuire. Hiller guardò l’orologio, poi disse: — Okay, adesso giriamo.
Gli attori ripresero le loro posizioni. Le luci divennero più intense; da chissà dove uscì una musica dura, stridente, ma non troppo forte. Qualcuno urlò: — Silenzio sul set! — L’illuminazione divenne ancora più forte; un’altra voce strillò: — Si gira! — Un uomo con una lavagnetta apparve sul set e camminò verso la macchina da presa, che sul binario si era spinta fino all’inizio del pavimento. L’uomo alzò la lavagnetta, e io lessi: 81. Marion Marsh. Ciak Uno. L’uomo batté l’asticella di legno, uscì di corsa dall’inquadratura. Le chiacchiere del party cominciarono, e io rimasi a guardare, affascinato, eccitato, colmo di ansietà per Marion.
Lei era su un lato del set, vicino al regista, e tutti gli altri parlavano, ridevano, si spostavano, formavano nuovi gruppi. I due uomini guardavano la tela alla parete, davano l’impressione di discuterne. Poi il regista fece un cenno con la testa a Marion, e lei entrò sul set e si fermò nella posizione che lui le aveva indicato. Scrutò il party con un’aria vagamente divertita, vagamente annoiata, e io avvertii un improvviso, piccolo brivido. Marion sembrava così a proprio agio, padrona della situazione; in una maniera che non capivo allora e non capirò mai, col suo modo di camminare, guardarsi attorno, e adesso stare ferma, mi aveva fatto capire che al party era arrivata una persona importante.
L’attore che le si era avvicinato nella breve prova per dire: “Bla, bla, bla” la raggiunse di nuovo, e disse qualcosa che la musica rese incomprensibile. E quando Marion rispose, e sorrise, io vidi il mento dell’uomo sollevarsi un poco, e il suo sorriso di risposta non era finto, svelava un interesse reale. I due uomini davanti al quadro si girarono a guardarli. Uno scrollò le spalle e disse qualcosa, e l’altro rise, voltando le spalle alla parete. In quel momento si accorse di Marion, e lui e l’altro si incamminarono verso lei. Lei li vide, sorrise di piacere, tese la mano; e l’uomo più vicino a lei affrettò il passo per correre a stringerle la destra e salutarla per nome, che era Essie. I quattro rimasero a parlare, a sorridere; poi l’intera stanza (i singoli individui, le coppie, i gruppi) si accorse, quasi all’unisono, della presenza di Essie. Tutti si giravano, la vedevano, la fissavano in silenzio, poi si mettevano a parlare concitatamente con la persona più vicina. Per cui ci fu un momento di silenzio crescente, quasi totale, mentre la stanza scrutava Marion, e subito dopo un eccitato aumento di tono nel brusio delle conversazioni. E anche se gli ospiti ricominciarono a parlare, tutti lanciavano occhiate di soppiatto a Essie, senza stare a sentire cosa dicessero gli altri. Ma stava accadendo anche un’altra cosa: tutto era diventato vero, reale.
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