Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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— Grande! Grande ! — Hugo Dahl si era messo a urlare. — Ci siamo, ci siamo! Non c’è bisogno di vedere altro. Marion, amore, fammi telefonare domattina dal tuo agente. Fred, la tua roba è pronta?

Un attimo prima che il raggio del proiettore si spegnesse, vidi il volto di Marion. Era pallido, stordito, stupefatto, come se qualcuno che lei amava l’avesse presa a schiaffi. Poi, nel buio, sentii il suo fiato sulla mia guancia quando mi sussurrò: — Nick, ma cos’è ? Cos’è ?

Più avanti, Fred stava parlando. Mi chinai su Marion e le mormorai, disfatto: — Uno spot.

— Un cosa?

— Una… una specie di annuncio pubblicitario. Come sui giornali. Non è per il cinema, Marion. È per la televisione.

— Quell’aggeggio sul quale abbiamo visto il mio film? È questo che ho girato? Non un film, ma… Il mio charleston serviva solo a fare pubblicità al ketchup ? — Annuii nel buio, le presi la mano.

Fred stava dicendo: — Abbiamo provato con un professionista del biliardo. Colpi da maestro. E il tipo era grande. Interessante, ma fiacco, senza vita. Ho eliminato il pezzo. Abbiamo provato con un’idea umoristica. Il cattivo che lega la ragazza ai binari del treno, cose del genere. Non funziona, Hugo. Però abbiamo girato qualcosa che funziona sul serio. Un’intera giornata di lavoro. Abbiamo già montato tutto. Aspetta di vederlo. Jerry, sei pronto? Fai partire.

Sapevo. Quando la bottiglia gigante si inclinò in avanti e la voce ridicola ululò: — Nel nuovo formato con la grande grandissima bocca ! — io sapevo cosa stava per apparire sullo schermo, e chiusi gli occhi. Ma quando il filmato pubblicitario si interruppe, e il rombo del motore di un antico biplano riempì la sala, mi appoggiai una mano sugli occhi subito dopo averli riaperti. Poi allargai le dita, e malgrado me stesso restai a guardare.

Incredibilmente, eccomi là in camicia bianca sventolante, calzoni da cavallerizzo e fasce di pelle, sull’ala più bassa di un antico biplano, sullo sfondo di un cielo azzurro chiaro. Le immagini erano state girate a una certa distanza dall’aereo, di lato alla fusoliera; nel frastuono del mio motore, non mi ero accorto della presenza dell’altro apparecchio, che si trovava un po’ sotto di noi. Il mio stomaco si contrasse. Sapevo che Los Angeles era un paio di chilometri sotto i miei piedi, immobili sull’ala dell’aereo, ma la macchina, da presa inquadrava soltanto l’uomo sull’ala e il cielo sopra; avremmo anche potuto essere a sei o sette metri dal suolo.

Di nuovo, a livello quasi fisico, come già era accaduto all’Olympic di San Francisco, percepii la fusione con qualcun altro, sentii che il mio corpo veniva occupato ; avvertii il tentativo quasi irritato di spingermi da parte, cacciarmi in un angolo remoto del mio essere. Ma questa volta opposi una rabbiosa resistenza. Questa volta tenni duro, e… Sullo schermo la scena cambiò e, affascinati, noi due guardammo assieme.

Un’auto sportiva vecchio modello, con la capote nera abbassata, correva su una strada bianca, sbandando da un lato all’altro. Chiaramente, le riprese erano state effettuate da un elicottero che volava appena sopra l’auto, leggermente più indietro e di lato. L’autista della vecchia automobile aveva una mano sul volante, e con l’altra teneva ferma una ragazza che si divincolava al suo fianco. La ragazza portava un lungo vestito bianco. Aveva le mani legate dietro la schiena, ed era imbavagliata. — Sì! — stava dicendo la voce ridicola. — Tutto il grandioso vecchio sapore… — L’antico biplano apparve nell’angolo in alto a sinistra dello schermo, puntando sull’automobile. Il mio corpo penzolava in aria a testa in giù, con la camicia che sventolava e le ginocchia strette attorno al pattino. Quando l’aereo si trovò direttamente sopra l’automobile (mi sfuggì un urletto dalle labbra), la figura si lasciò cadere. Eseguì un perfetto salto mortale e atterrò sul sedile posteriore. Primo piano: in piedi sul sedile posteriore, io tenevo un braccio attorno al collo dell’autista, e tendevo l’altra mano per togliere la chiave dal cruscotto e impadronirmi del volante. Altro stacco: l’automobile ferma a lato della strada, con l’autista legato e imbavagliate, e la ragazza fra le mie braccia che puntava lo sguardo sul pubblico. — Con tutta la bontà dei bei vecchi tempi! — disse la voce buffa, ed esattamente su “bontà” la ragazza fece l’occhiolino, e io avvertii l’improvvisa scomparsa della pressione sui miei muscoli, i miei nervi, i sensi e la mente.

Sullo schermo, la grande bottiglia di ketchup si piegò in avanti, e la voce continuò a parlare. Ma io mi ero girato sulla poltrona a guardare sul fondo della sala di proiezione, e lo vidi. Camminava a passi lenti appena sotto il raggio bianco del proiettore, chiaro e trasparente; la parete dietro di lui era perfettamente visibile. Riconobbi il profilo aquilino, gli occhi socchiusi, e i capelli neri impomatati, tratti che mi erano familiari da centinaia di libri sul cinema e da una decina di film, di Rodolfo Valentino. Indossava quello che era forse il costume che aveva scelto per l’eternità: lunghi calzoni scuri, gonfi quasi fino alle caviglie; stivali; una cintura borchiata in pelle alta una ventina di centimetri; uno scialle ruvido gettato su una spalla della camicia. Ma adesso, quelle spalle un tempo così fiere si erano afflosciate. E nella destra, appeso per il sottogola, aveva il resto del suo costume: il grande cappello da gaucho che pendeva inerte, sconfitto. Senza guardare lo schermo, rabbrividendo alla voce della bottiglia di ketchup Huntley, camminò verso l’uscita, ma non la raggiunse mai. Mentre la voce ridicola urlava: — Wow! — Rodolfo Guglielmi scomparve come una luce spenta all’improvviso.

Marion e io uscimmo. Scivolammo nella nostra fila di poltrone e corremmo fuori prima che in sala si riaccendessero le luci. Camminammo sulla stretta strada, malamente illuminata da lampioni di foggia antica, forse i residui di un film dimenticato. La luna era alta, quasi piena, e il suo chiarore dolce, morbido. I vecchi edifici in legno e mattoni che superavamo erano bui e muti, con finestre nere come l’inchiostro, oppure gialle nella luce lunare. All’angolo, svoltammo verso il cancello d’ingresso dello studio e la guardiola dove un uomo della sicurezza stava leggendo una rivista. Arrivati lì, Marion mi mise una mano sul braccio, e ci fermammo.

Si girò a guardare la strada deserta sotto la luna, immobile come quella di una città fantasma. Fissò l’edificio scuro e morto al nostro fianco. Poi si girò verso me. — Abbracciami, Nickie — disse. Io obbedii, e lei studiò il mio viso. — Sembri proprio lui. Quasi. Quasi perfettamente identico, però… Non lo sei. Non lo sei. Baciami lo stesso, Nickie. Dammi il bacio dell’addio! Perché non tornerò mai più.

La attirai a me, la baciai con dolcezza, con tenerezza. Le sfiorai il viso con le dita, le guance; le scostai i capelli dalle tempie; e lei, pallidissima nel chiarore lunare, mi sorrise. Poi io la baciai di nuovo, e dopo un attimo lei indietreggiò. — Ehi. Era per me o per Marion?

— Per Marion. Quel bacio era per Marion. Volevo farle sapere che qualcuno tiene a lei. E che si ricorderà. — Presi Jan fra le braccia. — Però questo è per te.

Trovammo un taxi e demmo l’indirizzo dell’hotel. Il mattino dopo, di buon’ora, saremmo tornati a casa. Non sarei mai entrato al 1101 di Keever Street, ormai lo sapevo, però dovevo vedere quella villa, e così chiesi all’autista di passarci davanti.

Quando svoltammo in Keever Street e io lessi la targa della via, mi guardai attorno. Non sapevo se fossimo ancora a Beverly Hills o no; la zona non collimava con la mia idea di Beverly Hills. C’erano negozietti su entrambi i lati della strada: una drogheria dall’illuminazione sfavillante, coi clienti che spingevano carrelli per la spesa; un negozio di dischi; una lavanderia; stazioni di servizio; tre ristoranti con servizio di cibi da asportare, tutti pieni zeppi: erano le nove di sera. E disseminati tra un negozio e l’altro, isolati oppure a gruppi di due o tre, sorgevano i resti laminati in amianto di quella che un tempo era stata la zona residenziale del quartiere. Non erano più case per una sola famiglia (si vedevano otto o dieci cassette della posta sotto ogni portico), ma condomini, con la demolizione come unica prospettiva futura. Non era una zona povera; non credo che qui sia permessa l’esistenza di zone povere, però era l’equivalente della povertà a Los Angeles.

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