Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Capii di nuovo che era passato altro tempo. Un’ora e mezzo, forse due ore. Semplicemente, riaprii gli occhi come dopo un sonno senza sogni, e vidi; ma non sapevo cosa vedessi. Era un pavimento, un pavimento enorme, sterminato, ma non di una stanza. Lo guardavo attraverso una foschia uniforme, perplesso dall’incrociarsi casuale di linee grigio-bianche, a volte rette, a volte curve, e dalla successione di mattonelle rosse e verdi grosse come un’unghia, in file parallele. Lontana, lontanissima, vicino all’orlo del pavimento, c’era una curva irregolare, più larga, grigio piombo; e mi resi conto che quello che vedevo era un fiume. E che le linee grigio-bianche erano strade, i quadrati verdi e rossi tetti, e che quell’enorme pavimento si stendeva sotto di me appena oltre l’orlo di una superficie coperta di stoffa sulla quale, appaiate, si trovavano le mie scarpe.

C’era anche un suono, percepii, un ruggito martellante, e una sensazione: ero raggelato dalla continua pressione dell’aria contro petto e costato. E adesso sentivo la stoffa della mia camicia sventolare nell’aria, battermi sulla pelle. Muovendo leggermente gli occhi, vidi una superficie verniciata sopra la mia testa, e intravidi un tirante metallico piegato ad angolo acuto.

Scacciai l’idea dalla mente per tutto il tempo possibile: l’idea che non stavo sognando, ma ero davvero accoccolato su un’ala di un vecchio biplano, centinaia di metri al di sopra di Los Angeles. La mia testa si girò un po’ di più. Vidi le nocche bianche del mio pugno sinistro strette attorno a un puntale, e (sulla mia sinistra, alle mie spalle) la testa del pilota, con casco e occhialoni. Mi si inaridì la gola, il mio intestino si raggrinzì. Sgranai gli occhi per lo shock. Per un altro momento, scrutai il vago, infinitamente lontano orizzonte, chilometri davanti a me e chilometri sotto di me; poi tutto tornò ad annebbiarsi, e questa volta capii che stavo veramente, realmente per svenire.

Ma prima che accadesse, ebbi di nuovo la sensazione di qualcuno che spingeva verso me, contro me, però senza esercitare una pressione fisica; e all’improvviso, ci trovammo a occupare lo stesso spazio, e Rodolfo Guglielmi era tornato. La curiosità, ovviamente, è sempre l’emozione più forte, e io riuscii a chiedermi dove avessi letto o sentito quel nome vagamente familiare. Poi ricordai. Sull’ala di quel primitivo aereo, con me c’era Rodolfo Valentino, scritturato con il suo vero nome come controfigura. Pur di tornare nel mondo del cinema, era pronto a fare anche quello.

Ma non voleva prendere il sopravvento completo su di me. Restammo lì, alti in cielo, immobili su un pezzo di stoffa verniciata… e dopo un po’ capii che lui aveva paura quanto me !

Mi lasciò! Diede un’occhiata all’orrore che si stendeva davanti e sotto noi, e mi abbandonò un’altra volta! Stringevo il montante con tanta forza che il mio braccio si stava addormentando. Guardai più avanti: il lungo, lungo muso dell’aereo dalla forma bizzarra; l’arrugginito tubo di scappamento su un lato della fusoliera; la vernice che si staccava attorno ai fori del tubo; il cerchio tremolante, inconsistente, trasparente dell’elica. E le mie ginocchia si squagliarono, le spalle si abbassarono, e io fui sul punto di cadere a corpo morto nello spazio.

Mi sia concesso dire, a eterno merito e gloria di Rodolfo Valentino, che tornò! Tornò. Assieme, facemmo una profonda, profonda inspirazione, poi lui si girò verso il pilota e si costrinse a sorridere. Un atto eroico. Valentino era un vero uomo. Ci aveva portati lassù, e ci avrebbe riportati giù. Con infinito sollievo mi lasciai invadere dal nulla.

Questa volta trascorsero solo pochi minuti, e di colpo, senza preavviso, rividi la grande pianura nebbiosa che era quasi tutta l’area di Los Angeles, da orizzonte a orizzonte; e l’altitudine era ancora maggiore.

Ma l’ala era scomparsa! Sentivo vicino il ronzio regolare, martellante, antico dell’unico motore, però l’aereo era svanito! Guardando in su (in su? Sì, in su !) vedevo le minuscole linee che erano strade e i puntolini che erano tetti. Avvertivo un dolore alla parte posteriore delle ginocchia (perché?), e il sangue si era congestionato in viso e sul collo. Poi capii: ero capovolto, e con la testa piegata all’indietro scrutavo, oltre il nulla, il pianeta che ruotava lontano sotto di me. Distolsi subito gli occhi, guardai giù (su?), e vidi la mia camicia bianca sventolare all’impazzata nell’aria, da metà del petto alla grande cintura di cuoio; vidi fino alle ginocchia le mie gambe inguainate nei calzoni alla cavallerizza, e nient’altro. Niente fasce, niente scarpe, soltanto l’ala dell’aereo coperta di stoffa. Udii la mia stessa gola emettere un suono strangolato perché ( mio Dio !) penzolavo a testa in giù nell’aria con le ginocchia piegate attorno al pattino sotto la fusoliera dell’aereo.

La mia testa si girò di scatto per il terrore, e vidi la testa con casco e occhialoni guardarmi. Le labbra sorrisero, il pilota mi fece un cenno con la mano guantata, e io cominciai a perdere consapevolezza di me; e ne fui lieto, perché preferivo cadere in stato d’incoscienza e morire piuttosto che continuare, anche per un solo secondo, a vedere e capire l’orrore della mia situazione.

Era passato altro tempo, molto altro tempo, quando sentii tornare pensiero e coscienza, e questa volta li sentii tornare in maniera completa. Mi accorsi di provare una terribile stanchezza nel corpo come nella mente, e capii che Valentino se n’era andato in via definitiva. Non volevo, non potevo aprire gli occhi per la paura di vedere. Ma le mie orecchie funzionavano, e il suono del motore dell’aereo era scomparso. Mi resi conto di udire il mormorio di voci impegnate in normalissime conversazioni, e aprii gli occhi.

Mi trovavo in una stanza. No, era un cinematografo, anche se piuttosto strano. Lo schermo bianco davanti a me, la prima cosa che vidi, era in miniatura; al massimo due terzi delle dimensioni normali. E c’erano solo una mezza dozzina di file di poltrone, ciascuna composta di una decina di poltrone. Dieci o undici persone sedevano qua e là. Due file più avanti, sulla mia sinistra, Hugo Dahl era in compagnia di altri due uomini, compreso Fred dell’unità esterna. Appena dietro Dahl sedeva una ragazza con un portablocco in grembo; aveva un portamine con una piccola lampadina vicino alla punta, e la accese un paio di volte. Sparsi in giro, altri uomini e donne, forse attori. Qualcuno mi tirò una gomitata. Mi girai, e al mio fianco c’era Marion (capii che era lei dall’espressione). Doveva essere tornata all’hotel, perché indossava un vestito verde che a Jan non piaceva; non lo portava quasi mai, anche se su Marion stava benissimo. Abbassai gli occhi su di me. Anch’io avevo fatto un salto all’hotel. Portavo un altro vestito, camicia, cravatta. Marion disse: — Penso che stiano per cominciare, Rudy. Sono nervosissima.

Le sussurrai: — Non sono Rudy. Sono Nick.

— Be’, credimi, ne sono contenta. È un uomo impossibile! Non mi ero mai resa conto che per lui esistesse solo l’io, io, io, io. Non sono riuscita a dire una sola parola per l’intera cena!

— Marion, cosa succede? Che ore sono? Hai fatto il tuo provino? Dove stia…

— Oh, sì, stamattina. Hanno sviluppato la pellicola nel pomeriggio. Adesso vedremo i provini. Hugo ci ha invitati.

— Be’, a cosa servono ? Per quale film?

— Non lo so. Nessuno lo ha detto. Ma credo…

Hugo Dahl si era girato sulla poltrona a guardarsi attorno. — Ci siamo tutti? — strillò, e, senza attendere risposta, puntò lo sguardo sulla cabina di proiezione. — Okay, Jerry. Andiamo.

Le luci si spensero immediatamente, e sullo schermo apparve un rettangolo di luce lampeggiante. Diventò bianco latte, e poi si materializzò in un lampo un numero 4 capovolto, poi lettere scritte a mano, a loro volta capovolte, e lo spezzone di un vecchio film. All’improvviso, sfuocato, sullo schermo apparve un uomo girato verso la macchina da presa, con qualcosa in mano. L’immagine si mise immediatamente a fuoco e svelò un giovanotto dai capelli lunghi, con baffi un po’ cascanti e una giacca di pelle a frange. Reggeva in mano una lavagnetta sulla quale, a gesso, era scritto HUNTLEY, e sotto CIAK 1, KAI MEISSNER. Nell’altra mano stringeva un’assicella bianca e nera fissata al fondo della lavagnetta. La sbatté contro la lavagnetta e uscì di scena.

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