Percorremmo lentamente l’isolato coi numeri dal settecento in su; poi l’ottocento, il novecento, il mille, ed erano tutti uguali. E lo era anche l’isolato del millecento, sul nostro lato della via. Ma non sull’altro.
Il taxista mise in folle e fermò al marciapiede di quello che doveva essere il numero 1101, perché non c’erano altre case. Guardammo. Alle nostre spalle, le luci e le insegne di un negozio di biciclette e di uno di liquori, entrambi aperti; e a poche decine di metri di distanza, all’angolo, l’illuminazione a giorno di una stazione di servizio Standard non concedeva un solo millimetro alla sera. Ma sul lato opposto della via, una grande area buia, illuminata soltanto dalla luna, era muta e immobile, immersa in un altro tempo.
Sotto il grande disco lunare si stendeva un isolato circondato da mura in pietra alte a petto d’uomo; facevano da base a una recinzione in ferro alta almeno tre metri. Le mura si interrompevano in un solo punto, direttamente di fronte a noi: un doppio cancello in ferro battuto, magnificamente lavorato, alto sei metri, immetteva su un sentiero d’accesso in ghiaia. Dietro il cancello e le pareti che si protendevano sulla via in entrambe le direzioni c’erano acri (masse nere nel chiarore lunare) di enormi alberi, con le cime che si stagliavano contro il cielo luminoso; grandi grumi di alte siepi; argentee distese di prato; sentieri bianchi e statue appena intraviste; e sul fondo, oltre le massicce presenze di alberi e siepi, la casa, un’enorme villa a quattro piani in stile spagnolo.
Non una finestra del lato che potevamo vedere era illuminata. La grande casa, lontana dalla via, più nascosta che visibile, dava l’idea di non avere mai conosciuto l’illuminazione, e di non essere destinata a conoscerla in futuro. La tentazione di scendere dal taxi e correre al cancello fu irresistibile. Lo scrutai dal marciapiede. Al centro di ciascuna delle due metà, incastonato nel ferro battuto, un grande ovale convesso di metallo, incorniciato da una corona d’alloro. Su quello di sinistra, in uno stile molto elaborato, era sbalzata la lettera V, e sull’altro una B. Mi aggrappai alle sbarre e scrutai nel buio. Sentivo solo il rumore dei rami mossi dalla brezza, e il fruscio leggero di una foglia sulla ghiaia del sentiero d’accesso. D’impulso, tentai di dare una scrollata alle sbarre che stringevo in mano, ma erano inamovibili, come affondate nell’acciaio. Restai a guardare per qualche altro istante, poi tornai indietro.
Al lato opposto della via, fermo davanti al taxi prima di risalire, mi girai di nuovo a guardare. Là dentro, da qualche parte… Ma scossi la testa, irritato con me stesso; e cercai di non pensare a quello che poteva trovarsi all’interno della villa lontana, immersa nel buio, lambita dai raggi della luna; e salii sul taxi.
All’hotel, raccontai a Jan della giornata e di Rodolfo Guglielmi. Lei mi ascoltò, scosse la testa, mi sorrise incredula, scosse di nuovo la testa. E parlammo di Marion; dicemmo il poco che c’era da dire. A pianterreno, nell’atrio, avevo comperato il Times di Los Angeles, e lo sfogliammo a letto; ma per noi era difficile da seguire, e molte delle notizie non ci interessavano, come succede sempre col quotidiano di un’altra città. Mi alzai, andai allo scrittoio, sfogliai le pagine del giornale che raccontava cosa si potesse fare in città; ma a quanto sembrava, al di fuori del nostro hotel non succedeva proprio niente. In un cassetto c’erano delle cartoline, già affrancate dalla direzione, scoprii; un vero tocco di classe. E siccome sapevo che le avrei comunque pagate, ne presi una (una foto della piscina dell’hotel) e mi misi a scrivere. “Caro Al, eccoci qua nella celebre, eccitante Hollywood! C’è pieno di star! Domani andiamo a Forest Lawn, a visitare il mausoleo famoso nel mondo intero di Felix il Gatto. Con affetto, il tuo amico Nick.” In corridoio non c’era nessuno. Lasciando aperta la porta della stanza, schizzai fuori in pigiama, infilai la cartolina nella buca accanto all’ascensore, e tornai al riparo sano e salvo. Verso le undici, o un paio di minuti dopo, spegnemmo la luce, e il telefono squillò quasi all’istante.
Jan era la più vicina all’apparecchio. Alzò il ricevitore e rispose. — Pronto? — Nel buio, cercai e trovai l’interruttore della lampada sul comodino. Jan sussultò al tono esagitato della voce, poi scostò il ricevitore dall’orecchio, e io mi avvicinai ad ascoltare. — Che diavolo di fine hai fatto ? — stava strillando una voce maschile. — Dove sei andata? Ho dovuto…
— Chi parla?
— Hugo Dahl, per la miseria! È tutta la sera che chiamo, ogni mezz’ora! Adesso stammi a sentire. Hai visto il tizio che stava con me in sala di proiezione? Giovane, calvo, vestito marrone? Be’, è Jerry Houk! Un produttore. Cinema, non televisione. È un pezzo grosso, e tu gli piaci. Stanno finendo un film. C’è una parte disponibile. Molto piccola. Una scena velocissima. Che hanno già girato. Però sono ancora sul set. Domani è l’ultimo giorno di riprese. Trovati lì all’una, e cercheranno di infilarci dentro un paio di inquadrature con te prima di chiudere. Se le troveranno buone, le useranno. Okay? Gesù, è un’ora e mezzo che tento di raggiungerti!
Jan fissava il telefono. Mi guardò, e accennò a passarmi il ricevitore, poi incollò il microfono all’orecchio.
— Allora? — chiese la voce di Dahl. — Cosa ne dici? Vuoi… Ehi, ma tu sei davvero Marion Marsh?
Jan esitò per un altro istante. Poi, con voce decisa, rispose: — Sì. Sì, sono Marion Marsh. E ci sarò. Domani all’una. Sono rimasta sorpresa per un attimo, signor Dahl. Non riuscivo più a parlare. Ma ci sarò. E non so dirle quanto apprezzi la sua gentilezza.
— Non se ne parla nemmeno. Ho sempre avuto un debole per Marion Marsh. Buona fortuna, ragazza. E salutami… mio Dio!… tua nonna !
Jan riagganciò. Col telefono in mano, rimase a guardare nella mia direzione, al lato opposto della stanza. — Ma come… — le dissi.
Jan si limitò a scuotere la testa.
— Lei lo saprà — rispose. — Lo saprà. E ci sarà.
La stessa guardia alla reception, dopo lo stesso scambio di sonisi e sguardi di reciproca ammirazione, trovò il nome di Marion su un elenco di visitatori attesi. Il mio non c’era, ma Marion si limitò a dirgli che era tutto a posto, e lui le spiegò come trovare il teatro di posa 2. Poi percorremmo la stessa stradina dello studio, adesso inondata dal sole e piena di gente, che la sera prima avevamo percorso tra silenzio e chiaro di luna.
Una doppia porta d’acciaio verniciata in grigio ci fece entrare nel teatro di posa 2, un altro enorme edificio che pareva un granaio. In fondo alla penombra dell’ampio pavimento di cemento vedemmo un set sfolgorante di luci, con molte persone. Il battere di un martello sul legno echeggiava, produceva una vera eco, nel grande spazio chiuso; un uomo in tuta bianca da falegname entrò dopo di noi e corse avanti con un’asse.
Avvicinandoci, scoprimmo che il set rappresentava tre lati di una grande stanza quasi incredibilmente moderna nell’arredamento. Grandi dipinti privi di cornice, macchie e spirali di colore, erano appesi alle pareti; le statue sui piedistalli e nelle nicchie dei muri erano complessi assemblaggi di metallo, plastica e legno; tappeti e mobili erano bianchi, ma tutto il resto, compresi gli abiti degli attori, sfoggiava colori aggressivi.
Non stavano lavorando, ci rendemmo conto procedendo a passi sempre più lenti e timidi verso il set. In piedi o seduti, chiacchieravano, bevevano caffè da bicchieri di plastica; intanto, tre operai in tuta bianca modificavano l’angolo di un piccolo binario di metallo avvitato su fogli di compensato. Il binario portava al set, vi si proiettava all’interno per un metro circa. All’estremità opposta del binario c’era una macchina da presa su ruote, molto bassa e talmente grande che sul retro era montato un sedile sul quale si trovava un ometto dall’aria nervosa. L’uomo guardava dal mirino della macchina, e dava l’idea di un contadino sul suo trattore.
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