Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Udimmo un rumore, un forte tintinnio metallico, e sul sentiero d’accesso apparve un uomo in bicicletta che correva verso noi. Di aspetto giovanile, calvo, indossava una specie di uniforme da maggiordomo, però senza giacca: pantaloni neri con una striscia bianca sui lati delle gambe, panciotto a strisce orizzontali bianche e nere, bavero, farfallino. Saltò giù dall’antica bicicletta e percorse gli ultimi metri col solo piede destro su un pedale. Annuì cordialmente, e con una grossa chiave d’ottone aprì un cancelletto che si trovava all’interno del grande cancello, talmente ben mimetizzato che io non mi ero accorto della sua presenza. Ci invitò a entrare gesticolando. Dopo che fummo passati, l’uomo richiuse il cancelletto. Poi, spingendo a mano la bicicletta, ci accompagnò sull’ampia curva del sentiero d’accesso, verso la casa.

— I prati erano meravigliosi, quando li ho visti io — mormorò Marion. — L’autobus si è fermato al cancello per lasciarci guardare dentro. Gli irrigatori erano in funzione, e ognuno creava un arcobaleno, e l’erba era perfetta. — Adesso non lo era. Il prato era stato rasato da poco, ma vista così, a distanza ravvicinata, l’erba era deturpata da grandi isole di tarassachi ed erbacce recise. — La ghiaia era bianchissima e appena rastrellata. — Ma se le manciate di pietruzze che restavano adesso sul sentiero erano mai state bianche, era difficile immaginarlo, e non c’era quasi più nulla da rastrellare. Essenzialmente, il sentiero era composto di un paio di solchi invasi da erbacce, stoppie, e foglie ingiallite.

Eppure, il terreno non era in stato d’incuria. Le siepi e gli alberelli che superammo avevano bisogno di essere potati, sistemati, ma non erano abbandonati a se stessi. Venivano curati, però in maniera sommaria; come se, pensai, non ci fosse più qualcuno a controllare la qualità del lavoro.

Procedendo sul sentiero, la casa diventava sempre più grande, si espandeva in entrambe le direzioni, e io vidi che era davvero enorme: una gigantesca villa a due piani, a tetto piano, in stile spagnolo, con le mura a stucco grezzo, color beige. Grandi scalini in pietra portavano dal sentiero alla veranda, alla massiccia doppia porta in legno lavorato.

Saliti i tre gradini, dalla veranda passammo nell’atrio, ampio ma non enorme. Il pavimento era a mattonelle in pietra nere e bianche, a mo’ di scacchiera. Dal soffitto alto due piani pendeva, appeso a una catena coperta di velluto, il lampadario di cristallo più grande che io abbia mai visto in una casa privata. E lì aspettammo venticinque minuti, seduti l’uno di fronte all’altra su sedie a schienale rigido foderate di velluto.

Io avevo davanti una doppia porta scorrevole in quercia, sotto un’imponente arcata; ai lati dell’arcata, due armature medievali, ciascuna dotata di una lancia lunga tre metri. Alla mia destra, una scala curva con la passatoia terminava su una porta sotto un arco; dietro doveva esserci un corridoio. Marion guardava me e una finestra alta due metri e mezzo appena dietro la mia sedia. La finestra dava su un pezzo di giardino e una grande fontana che non buttava più acqua da chissà quanto tempo. Il fondo della vasca era colmo di foglie marce.

Aspettammo nel lusso e nello sfarzo, a un tempo imponenti e patetici, di un’altra epoca, un altro gusto. A tratti si udivano rumori distanti giungere da porte lontane, chiuse. Poi con la coda dell’occhio intravidi un movimento, girai la testa, e lui apparve su un angolo della scala che stava scendendo a passi lenti. Indossava quello che mi parve uno smoking vecchio stile, a colletto estremamente rigido.

Senza dubbio era vecchio, molto vecchio. E senza dubbio era Ted Bollinghurst. Se nel 1926 aveva quasi quarant’anni, adesso doveva essere vicino al secolo, ed era esattamente l’età che gli avrei dato: rughe su rughe, ben al di là dei settant’anni. L’eterea fragilità dei novanta e più. Ci alzammo. Lui ci sorrideva a occhi socchiusi, perché forse non era ben certo di vederci, e prima che lui parlasse io ebbi il tempo di studiarlo.

Era il naso a svelare l’identità di Ted Bollinghurst. Marion mi aveva parlato di un naso camuso, ma non ero preparato a un naso così girato all’insù, quasi una deformità, con narici che erano lunghi buchi neri. Era calvo, e al tempo stesso non lo era; su un cranio insolitamente a cupola crescevano pochi ciuffi di capelli, però talmente fitti da non lasciare spazi vuoti. Una capigliatura stranamente scura, come quella di un candidato alla presidenza, che una meticolosa riga centrale divideva in due, senza dubbio da sempre. Adesso, però, i capelli scendevano flosci, inerti, sulle punte di orecchie larghe e raggrinzite.

Ormai era a metà della scala, e io vidi che i capelli erano chiaramente tinti, e che sotto gli zigomi prominenti c’erano due leggere chiazze rosse, e capii perché avessimo aspettato venticinque minuti. Bollinghurst si era dedicato al trucco, aveva un po’ restaurato il viso; e aveva indossato, scoprii, non uno smoking, ma una giacca da casa marrone scuro, coi risvolti di seta. Per incontrare Marion Marsh, quell’uomo vecchio, vecchissimo, aveva voluto apparire al suo meglio.

Lentamente, lentamente, sempre avanzando col piede destro, meticoloso passo dopo meticoloso passo come un bambino, con le mani che non lasciavano mai il corrimano, arrivò finalmente a vederci sul serio. Il suo sorriso diventò vero, e lui cominciò a piacermi. Mi piacque persino la sua strana faccia. — Marion?

— Sì. Sì, sono io… Ted. — Marion si era alzata, e fissava Bollinghurst a bocca spalancata. Poi gli regalò un sorriso splendido e corse ai piedi della scala. Lui scese gli ultimi gradini e tese una mano. Sorrideva ancora, però mi sembrò vicino al pianto.

— Marion, Marion, Marion — disse. Un tempo era stato più alto, probabilmente; ma ora, nonostante fosse sull’ultimo scalino, non era più alto di lei. — Che bello vederti. Mia cara, che bello, che bello. — Aveva lasciato andare il corrimano e stringeva la destra di Marion con entrambe le mani, scrutandola in volto; e Marion, che lo guardava sorridente, era a sua volta quasi alle lacrime.

Gli rispose, sinceramente felice e commossa di rivederlo, poi mi presentò, e il vecchio mi diede il benvenuto. La sua voce era molto sicura, sorprendentemente profonda, un poco più lenta di quella di un giovane, ma non troppo. Pareva un uomo vecchio ma ancora colmo di vigore, perfettamente padrone della mente e delle facoltà cerebrali. Però non poteva essere così, mi resi conto: se non era alla senilità, era comunque approdato al vago, generico stato confusionale che la precede. Perché non lo sfiorò nemmeno l’idea che la Marion Marsh che aveva conosciuto doveva essere una donna di ottant’anni. Chiaramente, per lui Marion era soltanto Marion, cioè la ragazza dei suoi ricordi, come era sempre stata. Però rammentò una cosa: — Hai cambiato il colore dei capelli, eh? — Scosse un indice che era un rametto secco, sorrise. Lasciò la scala e cominciò a muoversi sulla grande scacchiera, verso la doppia porta scorrevole. — Erano biondi! E tagliati alla maschietta — disse. Mi strizzò l’occhio e scosse la testa, come per dire “Queste donne!” — Però per il resto non sei cambiata. Nemmeno un po’. Riconoscerei quel sorriso da per tutto.

— E nemmeno tu sei cambiato. Ho ricono…

— Hai riconosciuto questo naso! — Una risata catarrosa, poi un colpo di tosse soffocato. — Quello non cambia!

— Secondo me è carino.

— Però il resto di me è cambiato, sono pronto a dichiararlo al mondo. Ragazzi, ragazzi, ragazzi. — Si fermò davanti alla grande porta, infilò le punte dei pollici nei due fori per l’apertura. — Tu non sei mai stata qui, vero? — chiese, incerto. — Sei stata a qualcuno dei party che davamo?

— No.

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