Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Il corridoio era molto largo, come minimo tre metri e mezzo. E talmente lungo che il gioco prospettico risultava chiarissimo: le quattro linee del pavimento e del soffitto scendevano, inclinandosi progressivamente, verso il quadrato lontano che era l’estremità opposta del corridoio, così distante che non riuscivo a vedere cosa la occupasse. Intravedevo solo una forma indistinta. Il soffitto era alto, e il pavimento in marmo bianco, bianco perché la parete alla nostra sinistra era un muro esterno lungo il quale, ad ampi intervalli, erano disposte quattro enormi finestre ad arco a vetri colorati. La prima distava una dozzina di metri da noi. La luce naturale del sole, rafforzata da riflettori (ormai doveva essere quasi il tramonto), illuminava il corridoio, creando chiazze di colore sul marmo bianco del pavimento e sulle pareti. Un bell’effetto scenografico.

Lo dicemmo a Ted, che parve soddisfatto. Stavamo raggiungendo una porta della parete interna alla nostra destra. A fianco della porta, appesa ad altezza d’occhio, c’era una targa in legno. Noce lucido. Lettere dorate sulla superficie della targa componevano un lungo elenco. Riuscii a leggerlo quando arrivammo più vicino: ALLA NAZIMOVA, ANTONIO MORENO, HOPE HAMPTON, EDMUND LOWE, DOLORES COSTELLO, RICHARD DIX, TOM MIX. — Tutti quanti hanno dormito in quella camera da letto, una volta o l’altra — disse Ted. — Alcuni contemporaneamente. — Sentii Marion emettere un ansito, e mi voltai.

Avevamo quasi raggiunto la prima delle grandi finestre a vetrate, e io corsi avanti, poi mi fermai a guardare. Illuminata da una luce tanto intensa da sembrare sospesa nel vuoto, la vetrata era composta di centinaia di pezzi di vetro, alcuni piccoli come un’unghia, altri grossi come un braccio. Tagliati e accostati con arte meravigliosa, formavano una scena verticale di ogni concepibile colore e sfumatura; a dominare, però, era il verde, in una decina o più di tonalità e gradazioni di tonalità, e ogni singolo frammento di vetro ardeva di luce.

Era un dipinto composto di incandescenti gioielli di vetro. Sulla cima di una collina disseminata d’alberi si alzavano grigi spalti merlati; sullo sfondo, l’inizio di una foresta lussureggiante. In primo piano, un fossato colmo d’acqua azzurra e un ponte levatoio alzato. E sugli spalti, in calzamaglia verde, farsetto e berretto a punta; una faretra piena di frecce sulla schiena; una mano su un fianco, e un arco sollevato nell’altra mano; a piedi arrogantemente divaricati, con un sorriso così smagliante da costringermi a socchiudere le palpebre davanti al brillio dei denti, c’era… Ma sì, certo, e lo dissi ad alta voce. — Douglas Fairbanks.

— In Robin Hood — esalò Marion.

Ted annuì. — Quelle sono le mie aggiunte. Hanno richiesto quattro anni e mezzo all’artista. — Dopo un lungo minuto o più, riprendemmo il cammino.

NITA NALDI era il primo nome sulla placca della seconda camera da letto. Poi REGINALD DENNY, POLA NEGRI, HERMAN MANKIEWICZ, LEATRICE JOY, MARY MILES MINTER, CONRAD NAGEL… Ma smisi di leggere. Avevamo raggiunto la seconda sfolgorante vetrata.

Tutto l’angolo sinistro in basso, dietro la forma rotonda dell’elica, era occupato dal motore e dalla cabina di guida di un aeroplano che puntava direttamente verso noi. L’aereo era inclinato in maniera folle, con le doppie ali su un lato protese verso l’angolo in alto a destra. In basso a destra, molto sotto le ali, un campo di battaglia disseminato di crateri. Sopra il campo, fino alla parte più alta della finestra, come sfondo all’intera scena, un cielo azzurro cosparso di nubi bianche. E al centro del cielo, un aereo piccolo, lontano, che scendeva in picchiata lasciandosi dietro una scia di fumo nero. Sulle ali superiori era raffigurata una croce di Malta. Il pilota del primo aereo, l’apparecchio in primo piano che riempiva l’angolo in basso a sinistra della grande finestra, sorrideva. Aveva una mano alzata perché stava per togliersi il casco di cuoio e gli occhialoni. Conoscevo quel sorriso, quella faccia: Buddy Rogers, ovviamente, in Ali. E quando dissi a Ted Bollinghurst che quella vetrata era eccezionale, non scherzavo.

Altra porta, altra camera da letto: CONSTANCE BINNEY, THOMAS MEIGHAN, MAE MURRAY, CLAIRE WINDSOR, RICHARD BARTHELMESS, NATACHA RAMBOVA… E sulla finestra al lato opposto del corridoio, un soldato in uniforme blu, chepì bianco, fasce bianche sui calzoni, con le caviglie affondate nella sabbia, si girava a guardare, angosciato, la disfatta colonna di uomini che stava guidando verso un forte lontano, sull’angolo in alto a sinistra. Il tricolore penzolava floscio all’angolo più vicino degli spalti. — Beau geste — sussurrò Marion. — Ronald Colman. Oh, lo adoro! — e io annuii e dissi: — Anch’io.

LILA LEE, BARBARA LA MARR, JACK HOLT, MABEL NORMAND, WALLACE REID, CONSTANCE COLLIER, BULL MONTANA…

Con una rosa di un rosso spettacolare stretta in mano, Renee Adoree correva nella strada del villaggio che occupava buona parte dell’ultima vetrata. Stava inutilmente cercando di raggiungere l’autocarro militare verde oliva dal quale John Gilbert, dietro la sponda posteriore rialzata, si protendeva verso la ragazza e verso la rosa con una mano tesa. L’altra mano stringeva il fucile, in una scena di La grande parata.

EVELYN BRENT, SESSUE HAYAKAWA, OLGA BACLANOVA, BUCK JONES, BILLIE DOVE, GEORGE ARLISS, MADGE BELLAMY, LYA DE PUTTI… — Mio Dio — dissi. — Se avessi potuto esserci ! Se solo avessi potuto essere qui in quei giorni. — E Ted e Marion annuirono.

Di fronte a noi, due porte in legno scolpito con decorazioni in oro, fiancheggiate da pilastri dorati cosparsi di lapislazzulì, occupavano il fondo del corridoio; sopra le porte, una struttura sporgente si proiettava nel corridoio. Ted alzò un interruttore alla parete, e decine di piccole lampadine (vetro bianco, punte a spillo) si accesero, delineando la forma rettangolare di un cartellone cinematografico in miniatura. Sul cartellone, piccolissime lampadine multicolori componevano la scritta IL TEATRO DI VILMA. Erano di ogni possibile colore, allegre, sfolgoranti; lampeggiavano a intermittenza, dandoci il benvenuto, promettendoci l’antica magia di “andare al cinema”. Ted aprì una porta, le luci all’interno si accesero, e Marion e io entrammo, sorridendo per l’eccitazione. — La sala di proiezione di Vilma — disse Ted. La porta si chiuse in silenzio alle nostre spalle. — Quasi identica a come l’ha lasciata lei.

Era una meraviglia, gioia pura. Il mio cuore tremò d’invidia. Eravamo sul fondo di un cinematografo degli anni Venti in miniatura: colonne dipinte e decorate, motivi ornamentali a stucco; pareti laterali a pannelli in mogano, con una piccola galleria a mezza altezza di ciascuna; un soffitto a volta cosparso di giganteschi diamanti di luce. Davanti a noi, uno schermo quadrato, grande forse la metà degli schermi attuali. E tre file non di sedili, ma divani e poltrone imbottite, capaci di contenere forse una ventina di persone. Gli unici spazi liberi erano sui lati.

Un locale splendido. Lì, sul fondo, le nostre gambe sfioravano l’orlo posteriore di un lungo tavolo che occupava quasi tutto il retro della sala. Sul tavolo c’erano apparecchiature per la visione e il montaggio dei film, compresi due reggibobina a manovella per riavvolgere la pellicola. In fondo a sinistra, a fianco del tavolo, la grande massa nera di un vecchio proiettore a lampada ad arco.

Mi girai verso Ted a dire: — Darei un braccio. Sul serio. Il sinistro senz’altro.

— È bellissimo — sussurrò Marion. — Ted, davvero!

— Sì. — Lui annuì, senza sorridere. — Per me è come una cappella. Ci vengo spesso. A meditare. Poi faccio partire uno dei miei vecchi film preferiti, e lo accompagno da me. — Puntò l’indice più avanti, sulla sinistra, e io vidi qualcosa che mi era sfuggito: una nicchia a forma di conchiglia a metà della parete. All’interno c’era un piccolo organo. — Ho imparato a suonarlo. Per accompagnare i film più vecchi. È chiaro che non bisogna mai proiettarli senza musica. — Si girò a toccare le tende che occupavano l’intera parete posteriore, tranne davanti alle porte, e proseguivano per un certo tratto sulle pareti laterali. — Però ho dovuto mettere queste per i film sonori — disse, come per scusarsi. — C’era dell’eco.

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