Non capii il motivo di tanta fretta finché sullo schermo non smise di scorrere il bianco della linguetta iniziale e, sovrimpresso al disegno stilizzato di un sassofono, apparve il titolo: JESSE L. LASKY PRESENTA “LE FIGLIE DEL JAZZ”, UNA PRODUZIONE HOWARD BERMAN, DAL ROMANZO DI WALTER BRADEN. E in quel preciso momento iniziarono le prime note di accompagnamento di Ted; era arrivato in tempo all’organo.
I titoli di testa, a lettere bianche su fondo nero, passarono veloci, e molto più brevi di quelli del giorno d’oggi. Io però non li lessi, contrariamente alle mie abitudini, e credo che neanche Marion li abbia letti. Perché sulla destra del nome dell’ultimo personaggio, ADELE, al posto del JOAN CRAWFORD che avrebbe dovuto esserci apparve qualcosa d’altro: un rettangolo bianco, lampeggiante, e io capii cos’era successo. Su ogni singolo fotogramma dei titoli, Ted aveva meticolosamente grattato via un rettangolino di emulsione, cancellando il nome della Crawford. Al suo posto, a lettere vibranti, tremolanti, leggemmo il nome che Ted aveva scritto a penna: MARION MARSH.
Il film iniziò, continuò, ed era insignificante; né Ted né chiunque altro lo avrebbero mai conservato per il suo valore intrinseco. Ricordai di averne già sentito parlare, da un collezionista di film che lo aveva visto. Era un fan della Crawford, collezionava tutti i suoi film, e aveva visto Le figlie del jazz solo perché era la prima apparizione dell’attrice. Diversamente, il film sarebbe scomparso. La Crawford era brava, mi aveva detto. E infatti era stata notata e aveva cominciato la propria carriera.
Era, grosso modo, una commedia. La star era Alicia Conway, che ha girato qualche film negli anni Venti. Lì interpretava una ballerina decisa a sposare un milionario, che però si innamora perdutamente del giovane e bel cameriere del milionario, e lo sposa per puro amore. Dopo parecchie fesserie, si scopre che il giovanotto è il milionario e che ha finto di essere un cameriere perché stanco di donne che gli danno la caccia per i suoi soldi.
Guardammo per un po’. L’organo era un sottofondo discreto, capace di seguire benissimo le diverse atmosfere delle scene. A un certo punto mi girai a guardare, e Ted ondeggiava dolcemente sullo sgabello, con le dita che volavano sulla tastiera. Era felice.
Mi arrivò una gomitata e mi voltai. Sullo schermo, una piscina rettangolare, di vecchia foggia; una scena in esterni filmata con troppo sole. E sì, nel gruppo ai bordi della piscina (le ragazze in costumi da bagno scuri, col gonnellino, e cuffie di gomma; gli uomini in calzoncini scuri e maglietta bianca) c’era la ragazza che avevo visto sul mio televisore e dal vero, trasparente ma vivida, reale, quella stessa sera. Le immagini erano in bianco e nero, ma alla luce del giorno il colore biondo dei suoi capelli era evidente. A una a una, le ragazze, ballerine ospiti del milionario, percorsero il trampolino, si misero in posa all’estremità, guardarono gli spettatori, e si tuffarono.
Non riuscii a capire come accadesse. Le altre erano soltanto attrici che recitavano la loro parte, agitavano fianchi e spalle camminando sul trampolino, sbattevano le ciglia prima di tuffarsi. Ma di nuovo, come sempre, Marion Marsh mi diede un brivido. Percorse il trampolino senza dimenarsi, in maniera molto semplice e diretta, ma la sua figura, il suo corpo, i movimenti, e lei stessa , lei in quanto persona, si imposero alla mia attenzione. E successe qualcosa anche agli uomini raccolti attorno alla piscina, qualcosa di cui, ne sono convinto, non si resero nemmeno conto. Al passaggio di ognuna delle quattro ragazze che avevano preceduto Marion, gli uomini avevano sorriso, mosso le sopracciglia in su e in giù, mormorato commenti. Con Marion, invece, rimasero immobili a guardare, senza ricordarsi di parlare, e così lei diventò l’unica figura in movimento sullo schermo. Quando arrivò in fondo al trampolino, a piedi uniti, guardandosi attorno con la tipica arroganza di Marion Marsh che avevo imparato a conoscere, persino le ragazze che stavano nuotando in acqua alzarono gli occhi a guardarla. Poi lei si tuffò, trafisse l’acqua col corpo, uscì di scena. La ragazza successiva si fece avanti sul trampolino, e il film perse di nuovo ogni traccia di vita.
— Ma cosa hai fatto? — sussurrai. — Cosa pensavi ? Sentivi la parte?
— La parte? Ma no. L’unica cosa che pensassi era che volevo farmi guardare. Pensavo alla macchina da presa.
Sullo schermo, la via di una città; e a fianco di un enorme tram, intravidi una vecchia automobile elettrica dal tettuccio molto alto, il tipo d’auto che andava a batterie e che al posto del volante aveva una barra di timone.
Un po’ più tardi, un inseguimento: una macchina sportiva correva su una stretta strada asfaltata, a lato dei binari ferroviari, nel tentativo di raggiungere un treno. Sulla piattaforma panoramica, Alicia Conway, a braccia aperte, aspettava che l’uomo sul predellino dell’automobile arrivasse tanto vicino da poterle lanciare la busta che conteneva la sua licenza di matrimonio. L’auto sbandava da un lato all’altro della strada.
Stacco, primo piano sull’auto. Vediamo l’autista e tre o quattro persone sui sedili anteriori e posteriori, uomini e donne. Sono eccitati. L’autista è chino sul volante, sterza di continuo; ha gli occhi sgranati per dare l’impressione dell’alta velocità. Le ragazze strillano, fanno smorfie, ondeggiano a destra e a sinistra; e a me diedero l’impressione di non credere in ciò che facevano, nel film, nella possibilità che il pubblico potesse trovarlo credibile. Con l’eccezione di Marion.
Dapprima, non si notava nemmeno. Ma dopo la prima decina di secondi di quell’inseguimento esagitato, individuavi sul sedile posteriore una ragazza quasi nascosta dalle altre. Ti accorgevi della sua presenza, mi resi conto, perché non faceva niente. Se ne stava soltanto seduta, col mento leggermente sollevato, gli occhi quasi socchiusi, e un sorriso remoto sulle labbra; però sentivi l’aria correrle sul volto, percepivi la sua pacata eccitazione. Appena prima che la scena terminasse, con lo sguardo di ogni possibile spettatore incollato addosso, Marion alzava all’improvviso le braccia, le protendeva in avanti, si sollevava a metà dal sedile, e potevi leggere le parole sulle sue labbra esattamente come se le avessi udite: Più veloce…
La scena era sua, rubata a tutti gli altri che nemmeno si accorgevano di lei. Quando mi girai a guardare Marion nel buio, sorrideva. Con gli occhi ancora sullo schermo, mormorò: — È stata una mia idea, quell’ultimo gesto. Non ho detto niente prima per paura che me lo proibissero. L’ho fatto e basta. Scommetto che la Crawford me l’ha rubato.
La bobina finì. Ted tornò indietro di corsa, accese le luci, tolse la bobina, la mise giù, sistemò la seconda sul proiettore. Sempre lavorando molto in fretta, controllò le due bobine, chiuse lo sportello di metallo, avviò il proiettore, spense le luci. Mentre sullo schermo passava la linguetta iniziale, lui corse all’organo, e di nuovo le prime note e le prime immagini coincisero alla perfezione.
— La mia ultima scena — mormorò Marion. — Credo sia all’inizio.
Arrivò dopo un minuto o due. Un vecchio amato da tutti, il produttore di un musical di Hollywood, era appena crollato a terra fra le quinte. Adesso le ballerine di fila, una dozzina di ragazze, dovevano andare avanti, sorridere al pubblico, schioccare le dita a tempo di jazz, anche se i loro cuori sanguinavano.
Undici ragazze lo fecero snudando i denti in sorrisi rigidi, come se la macchina da presa potesse filmare un sorriso solo se venivano messi in mostra tutti i denti; intanto sbattevano in continuazione le palpebre, per dimostrare che stavano trattenendo le lacrime. Marion inventò un sorriso nervoso, a labbra socchiuse; il labbro inferiore accennava solo un tremito di tanto in tanto; e i suoi occhi erano puntati oltre il pubblico, che non vedevano più. La guardavi, e ti veniva da chiederti cosa stesse pensando. Ma sapevi cosa pensasse, te lo aveva detto la trama del film, e quindi credevi di vedere le sue vere sensazioni. Le altre mimavano il dolore, ma Marion te lo faceva vivere, te lo faceva percepire. Dovevano essere in funzione due macchine da presa, una riservata ai primi piani. Perché i visi dell’una o dell’altra ragazza cominciarono ad apparire in primo piano. Ma la macchina da presa tornò sempre più spesso sul volto di Marion. Al mio fianco, lei mormorava fra sé, eccitata: — Pensavo che lo avrebbero fatto, ma non ne ero sicura! Stanno usando il mio primo piano. Il mio.
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