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Jack Finney: Un mondo di ombre

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Jack Finney Un mondo di ombre

Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Ci guardammo attorno. Faceva un fresco gradevole. Sentivo alzarsi aria dal pavimento più avanti. Mi girai e scoprii le bocche dell’impianto di aria condizionata alle nostre spalle, sistemate lungo le pareti appena sotto il soffitto e sopra le tende. Direttamente dietro noi, le porte dalle quali eravamo entrati avevano un cartello rosso con la scritta USCITA, e pensai che fossero le uniche porte. Ma Ted si era spostato sulla destra del locale, a fianco del tavolo. Scostò le tende su quel lato della parete. Apparve un’altra porta, e quando la vidi un nodo d’eccitazione mi serrò la gola.

Ero stato tormentato da una domanda della quale non volevo nemmeno ammettere l’esistenza: come aveva fatto Ted Bollinghurst a impedire che pellicole al nitrato degli anni Venti si disintegrassero col passare degli anni? Tanti vecchi film erano andati persi proprio in quel modo: si erano lentamente polverizzati negli archivi di studios indifferenti.

Ma la porta che Ted aveva messo a nudo era smaltata di bianco, e sull’angolo in alto a sinistra lettere cromate dicevano WESTINGHOUSE. Adesso lui la stava aprendo; al posto del pomello aveva una lunga maniglia cromata. Tese la mano, le luci interne si accesero, e io vidi tubi coperti di brina. La porta immetteva in una cella frigorifera, come nelle macellerie. — L’unico modo pratico che io conosca per conservare vecchie pellicole — disse Ted, girato a metà verso noi sulla soglia. Sorrise. — I primi tempi ho usato il ghiaccio. Tenevo i miei film in ghiacciaie di seconda mano. A volte ho saltato il pranzo, però i soldi per il ghiaccio li ho sempre trovati. In seguito ho usato vecchi frigoriferi, e adesso questo. Ogni millimetro di pellicola che posseggo è in condizioni perfette. Ogni copia immacolata, splendente come un gioiello. Non c’è un solo fotogramma graffiato, qui dentro. — Il suo sorriso si allargò. — Venite!

Le ginocchia mi tremavano, il respiro era affannoso. Quando varcai la soglia della cella frigorifera, sbattei nella spalla di Marion. Avevo dimenticato la sua presenza, dimenticato tutto ciò che non fosse il rettangolo illuminato della porta. Ted, appena dentro, ci invitava a seguirlo.

Faceva freddo, ma non mi importava niente. Su entrambi i lati del locale, cassetti in acciaio inossidabile. Ogni cassetto aveva una grossa maniglia verticale, e sopra ogni maniglia una cornicetta metallica conteneva un cartoncino. Quando vidi ciò che era scritto su alcuni cartoncini, dovetti abbassare gli occhi sul pavimento per un attimo, perché mi era venuto il capogiro.

Poi rialzai la testa. Avevo di fronte tre cassetti con l’etichetta WM. DE MILLE, e sotto ogni etichetta, scritto a macchina, un elenco di titoli. Tirai una maniglia, il cassetto si aprì, e io fissai la doppia fila di portabobine, una dozzina come minimo. Eccoli lì. Veri, reali. Film diretti da William de Mille, con la de minuscola, non da suo fratello Cecil, con la De maiuscola, del quale purtroppo sono stati salvati quasi tutti i film. Quelle erano le opere del fratello che girava i bei film. Sollevai uno dei contenitori metallici, sentii il gelo su palme e dita, e lessi ad alta voce l’etichetta. — L’applauso del mondo. — Intimorito, mi girai a guardare Ted. — Questa deve essere l’unica copia esistente al mondo.

Lui annuì felice. Gli brillavano gli occhi. — Ne sono certo. Lo vuole vedere? Glielo proietto!

— Aspetti. — Alzai una mano e rimisi al suo posto il contenitore. Avevo visto dei cassetti con l’etichetta GARBO. Chiusi quello di de Mille e mi misi a leggere i titoli della Garbo. Sul primo e sul secondo portabobine, niente di speciale. Alle mie spalle, Marion esclamò: — Armi a tracolla ! L’ho visto da bambina, ai tempi della guerra. — Lo trovai alla terza etichetta: La donna divina , con la Garbo e, ricordai, Polly Moran, John Mack Brown… Un film scomparso della Garbo. Era quello che volevo farmi proiettare? Cominciai ad avvertire una certa frenesia. Non potevamo vedere più di un film, però… Mi guardai attorno. La cella frigorifera era piena di film che dovevo vedere!

Mi misi a leggere etichette, spalancare cassetti, guardare per un istante, chiudere, aprire un altro cassetto. C’erano i film di Edward Sloman, forse un regista ancora più grande di Griffith, però… Il National Film Archive possiede, di Sloman, Lo spettro di Rosie Taylor , girato nel 1918; il Museum of Modern Arts di New York ha qualche rullo di Idoli infranti ; ma quasi tutto il resto del suo lavoro è scomparso. Forse uno dei nostri migliori registi, se solo potessimo vedere la sua opera, ed era , davanti a me, quasi completa. Volevo vedere uno di quei film? O magari un rullo di tutti. Sì, , però…

— Mary Pickford! — mormorò Marion, aprendo un cassetto.

Ted alzava prima un piede e poi l’altro, in una danza contenuta ma molto eccitata. — Scegline uno, Marion! Te lo faccio vedere! Ho Tess del paese delle tempeste ! — Un altro film perduto, e io feci quasi per rispondere di sì, ma Marion aveva chiuso il cassetto.

— L’ho visto.

Mi spostai al suo fianco a leggere le etichette della Pickford, e lo trovai: Fanchon e il grillo. Era quasi in cima al primo elenco di titoli, e fui molto, molto tentato. Girato nel 1915, era interpretato da Mary Pickford, da un giovane, giovanissimo Fred Astaire e da sua sorella Adele.

Poi vidi i due cassetti nella fila sopra quella della Pickford. L’etichetta diceva GREED. Mi si bloccò la voce. Restai lì a puntare l’indice, ma quando Ted si avvicinò a leggere le etichette, riuscii a balbettare: — Tutti? Tutti e quarantadue i rulli?

Lui annuì. Aveva gli occhi lucidi. — Tutti. Una copia completa e assolutamente perfetta fatta dai loro tre migliori tecnici. Hanno lavorato tutta notte, fino all’alba del giorno in cui lo studio ha fatto distruggere i negativi!

Rimasi impalato. Non sapevo cosa fare. Vedere tutti e quarantadue i rulli di Greed avrebbe richiesto dieci ore. — È questo? — stava chiedendo Ted. — È questo che volete vedere? Tutto? Una parte? Vi proietterò tutto quello che volete! — Era fuori di sé per la gioia.

Gli dissi: — Ted. Un rullo è stato colorato…

— Ce l’ho, ce l’ho! — Aprì un cassetto, lasciò correre gli occhi sui contenitori metallici, poi ne afferrò uno. — È questo! All’inizio del rullo. Lo vuole vedere? Lo metto in macchina! — Tornò nel cinematografo in miniatura, mise sul tavolo il portabobine e alzò il coperchio.

Io gli battei sul braccio. Adesso sapevo cosa volevo. — Non c’è bisogno di proiettarlo, Ted. Me lo lasci solo toccare.

Lui aveva già srotolato i primi due metri di linguetta iniziale e un metro e mezzo di rullo. Si girò a guardarmi, poi annuì e sorrise. — Capisco. Sì, certo. — Improvvisamente ansioso, chiese: — Lei sa maneggiare una pellicola?

— Mi creda, sì. La tengo in mano solo sui bordi. Non ho mai lasciato un’impronta su un solo fotogramma in vita mia.

Mi passò la linguetta iniziale. Io la alzai in aria, poi presi fra pollice e indice la pellicola, esercitando il minimo di pressione possibile. — La passi alla moviola, se vuole — disse Ted, ma io scossi la testa. Avevo sollevato la pellicola verso le luci del soffitto, ed era più che sufficiente. La famosa scena: Zasu Pitts, una Zasu Pitts giovanissima e deliziosa, nuda su un letto sul quale erano sparse monete d’oro. Procedendo di fotogramma in fotogramma, riuscii a vedere che lei si rotolava letteralmente nell’oro, premendo il corpo contro le monete. L’epitome dell’avidità. E quella, quella era la scena che Von Stroheim aveva ordinato di colorare a mano: sulla pellicola che io tenevo alzata alla luce, ogni monetina aveva ricevuto il colore dell’oro dalla punta di un pennello. Mi tremarono le mani, al pensiero di ciò che le mie dita stringevano.

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