Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Non so se qualcuno sia mai riuscito a darne una spiegazione, ma di tanto in tanto nascono rare persone diverse da tutti noi. Riescono a scatenare qualcosa che è reale, invisibile, e potente nei suoi effetti quanto l’elettricità. E Marion lo stava facendo. Al centro del party, lo teneva in pugno. Gli altri erano intensamente consapevoli della sua presenza, non si limitavano a recitare. Adesso il party era vero (io mi scordai che si trattava solo di un film) perché era entrato in azione un magnetismo. Doveva essersi verificato un momento simile, mi resi conto, la prima volta che la Garbo si era trovata davanti a una macchina da presa.

Marion lasciò gli uomini coi quali stava parlando e raggiunse la sua destinazione finale, il punto sul pavimento che il regista aveva sfiorato con la scarpa. Per un attimo restò a sorridere pigramente, consapevole dell’attenzione che aveva provocato e del tutto indifferente. Poi, quasi senza accorgersi di farlo, mosse leggermente spalle, braccia e fianchi, in maniera indolente e un poco insolente, in un accenno di ballo moderno; una cosa che non poteva avere imparato, che doveva avere intuito. Stava per mettersi a ballare sul serio. L’intera stanza lo capì. Le conversazioni si spensero, e tutti fissarono Marion colti da vero fascino. Per un attimo, lei restò immobile, esitò. Il regista urlò: — Stop! Stop! — e si avviò sul set verso lei.

Ma sorrideva. — Bene — disse, procedendo verso Marion. — Gesù Cristo, è stata grande ! Senta — disse in tono stupefatto, fermandosi di fronte a lei — lei ha qualcosa di speciale, lo sa? Una… — Scrollò le spalle. — Non so. Una presenza , credo. Potrebbe rifarlo? — Fu preso dall’improvvisa preoccupazione che lei non ne fosse capace. — Senta, potrebbe rifarlo? Nello stesso identico modo! Non cambi niente. Tranne… — Sorrise, alzò una mano per dimostrarle che non la stava rimproverando, ansioso di non innervosirla nemmeno lontanamente. — Tranne per quell’esitazione — concluse in tono dolce. — Okay! — urlò, ma l’uomo col ciak gli stava battendo sul braccio per attirare la sua attenzione. I due confabularono per qualche istante. Il regista guardò l’orologio. — Okay, andiamo in straordinario — disse. — Dobbiamo girare questa scena. Okay, tutti ai loro posti!

La ragazza del trucco fece un altro giro, l’operatore armeggiò con l’obiettivo, l’uomo con la lavagnetta apparve, diede il ciak; e accadde di nuovo. Però non fu la stessa cosa. Quella volta… Non lo avrei creduto possibile, ma quella volta fu meglio. Meglio perché adesso tutti, sul set, sapevano che quel giorno stava succedendo qualcosa d’importante, e l’aria vibrava dell’eccitazione di quella consapevolezza. Rifecero tutto, e la scena fu una meraviglia. Chi è costei?, diceva la scena mentre Marion raggiungeva la sua posizione finale. Chi è questa incredibile Essie, e cosa farà ?

Marion lasciò i tre uomini, si spostò verso la sua ultima posizione, la raggiunse, e si fermò di nuovo, pigra, insolente, serena e orgogliosa. Di nuovo mosse il corpo al ritmo della musica, solo un poco, ma la forza di quella sensuale promessa mi mozzò il respiro in gola. E questa volta, senza la minima esitazione, la sua mano si posò sulla corda blu attorno alla vita e slacciò l’unico nodo. Con un passo in avanti, con le spalle che già ballavano, si liberò del vestito, lo lasciò cadere sul pavimento, e sorrise agli ospiti, completamente nuda. Sulla curva dello stomaco, col rossetto, era stato tracciato un cuore; una freccia piumata blu lo trafiggeva, e pareva che la punta e metà della freccia fossero penetrate nell’ombelico di Marion. E il cuore e la freccia trasformavano la sua nudità in qualcosa di osceno.

Lei sorrise al pubblico, un attimo prima che la danza iniziasse; poi aggrottò la fronte. Abbassò gli occhi su se stessa, li rialzò, ma adesso guardava oltre il pubblico. Dopo di che, quella ragazza del 1926 (per quanto spregiudicata, sempre una ragazza del 1926) disse: — No. — Lo disse a voce piuttosto alta, ma parlava soprattutto a se stessa. — Per la miseria, no. Questo non è cinema. — Si guardò attorno. Il suo sguardo passò in rassegna tutte le facce. — Bastardi — disse. Poi si voltò a fissare il regista, e con una voce gonfia di disprezzo disse: — Bastardo. Questo non è CINEMA! Per niente!

Il regista si rianimò. — Stop! Stop! — Si incamminò verso Marion. — Tu, stammi a sentire! Se vuoi passare questo maledetto provino, se hai intenzione di lavorare ancora… — Si fermò e, come tutti gli altri, restò a guardare.

Marion si era chinata a raccogliere il vestito, e senza prendersi il disturbo di indossarlo, di nascondere la propria nudità, lo buttò sprezzante su una spalla; e a testa alta lasciò il set, diretta al camerino.

Di colpo, tutti quanti trovarono qualcosa d’urgente da fare. Mi ignorarono come se io fossi invisibile. Il regista, in particolare, non ebbe un attimo di quiete: passeggiò rabbiosamente avanti e indietro; ordinò che il set venisse irrevocabilmente smontato il più in fretta possibile; lasciò liberi gli attori; fece spegnere e rimuovere le luci, assieme a tutte le attrezzature. E quando Marion uscì vestita, ogni singola persona fece l’impossibile per ignorarla mentre percorreva il set nella mia direzione, a testa alta, pronta a scoccare occhiatacce a chiunque. Le andai incontro, la presi a braccetto; e percorrendo un angolo del set verso l’uscita lontana, anch’io avevo la testa eretta e l’aria bellicosa, e cercai attorno qualcuno disposto a sostenere i nostri sguardi. E qualcuno lo fece. Alcuni attori e tecnici puntarono gli occhi nei nostri, magari con un’aria un po’ ironica, ma comunque sorrisero per dare la loro approvazione. Però fuori, nella penombra, nel lungo percorso verso le porte di metallo grigio e la strada dello studio, Marion pianse un po’. Poi smise.

Pensavo se ne fosse andata. All’esterno dello studio, mentre facevo cenno a un taxi fermò a una decina di metri da noi, chiesi: — Jan?

— No. Sono Marion, Nickie. Sono una puttana egoista, e lo so. Ma non sempre. Non proprio sempre. — Il taxi si fermò davanti a noi. Lei si chinò sul finestrino anteriore aperto e disse all’autista: — Keever Street, 1101.

Sul taxi non volle parlare. Quando ci provai, mise la sua mano sulla mia per un attimo, per zittirmi e farmi capire che sapeva che ero pronto a consolarla, se avessi potuto; poi si girò a guardare fuori dal finestrino.

Scendemmo alla stazione di servizio Standard, a un quarto di isolato dalla grande cancellata in ferro battuto. All’angolo c’era una cabina telefonica, e Marion chiamò il numero di Bollinghurst, Theo N. — Lo hai trovato? — le chiesi quando uscì.

— No, però ho trasmesso il messaggio. Ho detto che Marion Marsh sta aspettando. Davanti al cancello.

Avviandosi in strada, verso le mura e la recinzione in metallo che si stendeva in entrambe le direzioni, lei disse: — Sono già stata qui. Quando la villa era nuova. L’ho vista da un bus turistico. — Camminammo lungo il muro, poi ci fermammo al grande cancello che chiudeva il sentiero d’accesso. Marion indicò le vecchie placche al centro, una con una V, l’altra con una B. — All’epoca erano lucidissime. Brillavano come oro. — Alla luce del giorno, vidi che le placche non erano in ferro come il cancello; erano di bronzo, chiazzate di verde dal verderame. Sulla chiave di volta dell’arco che contornava la sommità del cancello, un cartiglio di bronzo sormontato da un elmetto piumato diceva GRAUSTARK. Ma anche quello era ormai verde, e alcuni dei paletti della palizzata erano privi di vernice, e sotto si vedeva la ruggine. Sul muro in pietra alla nostra destra, una scritta a vernice spray di chissà quanto tempo prima, ormai praticamente illeggibile.

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