Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Così, a cena, gliene parlai. Le spiegai quanto fossero dubbi i miei motivi. E Jan disse: — Sono sollevata, Nick. Avevo paura che tu volessi andare a Hollywood solo per stare con Marion! — E all’improvviso io mi sentii in grande forma, e ordinai una costosa caraffa del misterioso, torbido liquido rosso che al vomitorio passa per vino. Levammo i bicchieri in un brindisi, bevemmo a occhi socchiusi; e io mi scoprii a chiedermi se andare a Hollywood con Marion non fosse il mio vero motivo, il mio unico motivo. Al diavolo. Coraggiosamente, riempii di nuovo i bicchieri. Più tardi, per la prima volta in vita mia, trovai il coraggio di chiedere il “sacchetto di avanzi per il cane”, in modo che anche Al potesse festeggiare.

Il mattino dopo, preparando le valigie, Jan era un po’ torva; ma se anche aveva voglia di cambiare idea (e secondo me la tentazione la sfiorò), non aprì bocca, e per le otto eravamo pronti. Indossava un vestito rosa, la giacca di stoffa, e un foulard, nel caso avessimo fatto il viaggio con la capote abbassata. Io portavo calzoni marroni, mocassini, camicia sportiva, e un maglioncino senza maniche.

L’ultima cosa che trasportai fu un cartone di cibo per cani, che lasciai sul portico del retro dei Platt; si sarebbero presi cura di Al. E quando Al trotterellò sul portico a investigare, gli spiegai quello che stava succedendo. Secondo me, i cani recepiscono il senso generale di una spiegazione, anche se magari non capiscono proprio tutte le parole.

Mi accoccolai al suo fianco, gli grattai le orecchie, sollevai di tanto in tanto le grosse aree di pelle che ha attorno alle spalle e al collo: i basset hound sono dotati del doppio di pelle rispetto ai loro veri bisogni. Gli dissi: — Senti, non è vero che tu sia stato licenziato dal tuo posto di cane. La posizione resta tua. E non è nemmeno vero che tu sia stato adottato; sei sempre il nostro vero figlio. Okay, staremo via per un po’, però torneremo. E i Platt si prenderanno cura del tuo benessere fisico, se non spirituale. Quindi non preoccuparti, okay? — Lui sventolò la coda e, sono incline a pensare, annuì. Sollevai una manciata enorme di pelle che aveva attorno alle spalle. — Fra parentesi, non so dove tu abbia comperato questo lercio costume da cane, però di sicuro fa schifo. — Lui si lanciò verso il mio orecchio con la lingua, ma io eseguii una manovra evasiva. — E quando torno, mi piacerebbe vederti con un costumino più nuovo e più chic. Ormai le orecchie lunghe non vanno più di moda. — Al pareva interessato. — Perché non provi con un costume da barboncino, la prossima volta? Sono molto carini. Qualcuno gli mette anche i cerchietti alle caviglie e alla coda. Però bisognerà far accorciare le zampe. — Mi rialzai. — Allora, ricordati che torneremo. Torneremo. Nel frattempo, gioca bene le tue carte, e vedrai che riuscirai a scroccare ai Platt un sacco di delizie proibite. — Gli assestai un pugno a una spalla, che è più robusta e più massiccia della mia; poi portai in auto i nostri bagagli.

Non sapevamo quando si sarebbe fatta viva Marion, ma arrivò mentre stavamo partendo. Scendevo le scale con le valigie, e Jan era alle mie spalle, con le chiavi in mano per chiudere la porta, quando la sentii rientrare in casa come se avesse scordato qualcosa. Nel momento in cui alzai gli occhi dal bagagliaio della Packard, lei scendeva dai gradini del portico. A braccia sollevate, stava sistemando la parrucca bionda. E all’improvviso, io mi resi conto che sarei partito per Hollywood in compagnia dello spettro di un’attrice cinematografica morta nel 1926. Probabilmente rimasi a fissarla a bocca aperta, perché lei raggiunse l’automobile, aprì la portiera dalla sua parte, poi si fermò a guardarmi. — E dai, Nickie. Non perdere tempo. Siamo in ritardo di quarantasette anni.

Durante il viaggio accaddero solo un paio di cose degne di nota. È un tragitto non indifferente da percorrere in un solo giorno. La vecchia Packard non è l’automobile ideale per i viaggi lunghi, e io non parlai molto. Chiesi subito a Marion se accettasse i termini di Jan, e lei rispose di sì. Poi le chiesi il nome dell’uomo che possedeva i film, l’incredibile collezione di film muti; ammesso che li avesse ancora; ammesso che le pellicole esistessero ancora.

— Bollinghurst — rispose lei. — Si chiama Ted Bollinghurst. — Era soltanto un nome, ma il mio stomaco si contrasse. L’eccitazione si gonfiò di nuovo in me, e io seppi che quel nome sarebbe rimasto scolpito per sempre nella mia mente. — Abita al 1101 di Keever Street, a Beverly Hills, stando al tuo elenco telefonico. E questo è tutto quello che so, Nick. Non so se abbia ancora i film. Non so nient’altro.

Da quel momento in poi, Marion chiacchierò parecchio, facendomi notare i cambiamenti. Ce n’erano stati parecchi dal 1926, e per la maggior parte del tempo io continuai ad ascoltare e annuire. A pranzo entrammo in un drive-in, e Marion lo trovò bellissimo. Volle a tutti i costi sporgersi dalla mia parte per ordinare dal microfono: frappé per due, cheeseburger per me, hamburger per lei, con tutta la farcitura possibile. Si riadagiò sul sedile, poi aggrottò la fronte e si protese di nuovo in avanti. — Niente cipolle con l’hamburger! — disse nel microfono, e mi sorrise. — Ciao, Nick — disse, e io le diedi una pacca sul ginocchio, lì nel drive-in: Jan non digerisce le cipolle.

L’unica altra cosa che accadde fu che mi trovai a lottare col volante. Il tachimetro segnava cento chilometri orari, una velocità molto, molto alta per la Packard; e i pneumatici ululavano in curva.

Riuscii a riprendere il controllo, decelerando con cautela, finché non tornammo su un rettilineo. Attorno al collo avevo il foulard di Marion, gonfiato alle mie spalle dal vento. Molto romantico. — Cos’è successo?

— Si è messo a guidare Rudy — rispose lei, scusandosi. — Ha voluto entrarti dentro per un po’.

— Be’, come autista fa schifo!

— Lo so. Ha detto che il volante risponde molto peggio della sua Isotta-Fraschini, e che era meglio ridare il comando a te.

In curva ?

— Lo so. È tutto svitato.

Verso le dieci e trenta di quella sera, Jan e io cenammo al piccolo ristorante del Beverly Hills Hotel. Seduti a un séparé, in attesa che ci servissero, eravamo talmente esausti da riuscire solo a fissarci con aria istupidita. — A me restano i suoi mal di testa, i suoi doposbornia, e adesso la sua stanchezza totale — disse Jan, massaggiandosi la fronte. La sua destra sfiorò l’attaccatura dei capelli, incontrò la parrucca bionda, e la tirò giù. Jan scrollò le spalle. Rinunciammo a un budino dall’aspetto delizioso per la spossatezza fisica. Alle undici eravamo a letto, e dormivamo già. La parrucca era sul comodino.

A un certo punto mi svegliai, e mi accorsi che anche Jan era sveglia.

— Nick?

— Sì?

— Non sono sicura di voler andare avanti con questa faccenda. Tu cosa ne pensi?

— Decidi domattina. — Mi rimisi a dormire.

Quando mi svegliai di nuovo era giorno, e Marion, in parrucca e vestito arancio di Jan, era seduta sull’orlo del letto. Aveva al suo fianco un elenco telefonico aperto, e i suoi occhi erano puntati sulla sveglietta da viaggio. — Le sei e quarantacinque sono un po’ troppo presto per telefonare, Nickie?

— Sì. — Tornai a dormire.

Mi svegliai un’altra volta al suono di qualcuno che componeva un numero al telefono, e guardai la sveglia: le otto e un minuto. — Non è troppo presto! — si difese Marion; poi disse nel ricevitore: — Pronto? Il signor Dahl, per favore. Il signor Hugo Dahl. — Ascoltò. — Capisco. E potrei raggiungerlo là? — Ascoltò, annuì. — North Gower Street. Grazie infinite. — Riagganciò e mi guardò, improvvisamente spaventata. — Sta andando allo studio. Lavora ancora nel cinema. Nickie, ho paura! È lui la mia unica speranza. Ho cercato negli elenchi telefonici, e di tutte le persone che conoscevo non c’è nessun altro che possa ancora fare quel lavoro. E se non si ricordasse di me? — Non vedevo come Dahl potesse averla dimenticata, ma non dissi niente. Lei saltò su e corse a sedersi dalla mia parte del letto. — Nickie, oggi verrai con me, vero? Non posso andare agli studios da sola! Ho paura! Sul serio.

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