Mi pare strano avere capito immediatamente cosa cominciò a succedermi in quel momento, anche se non era poi davvero strano; più di una volta Jan mi aveva già parlato del fenomeno, cercando le parole adatte per descriverlo. Era una sensazione quasi fisica, come se (spero riusciate a immaginare una sensazione del genere) qualcun altro fosse seduto con me sulla mia poltrona, qualcuno che spingeva ma non mi dava fastidio. Sicché, all’improvviso, io e lui occupammo lo stesso spazio. In un lampo, in pochi secondi, qualcun altro si impossessò di me; io mi trovai letteralmente “posseduto”.
Col mio io immobilizzato, impotente e inerme, venni spinto da parte, scacciato in un angolo remoto del mio stesso essere. Percepivo ancora gli impulsi comunicati dai miei sensi. Per qualche secondo continuai a riconoscere i messaggi che i miei occhi e le mie orecchie ricevevano; ma in modo vago, e da una distanza che cresceva di istante in istante, come un bambino che scivoli in fretta nel sonno. Nel giro di due secondi, tre al massimo, io ero completamente scomparso, raggomitolato in un qualche abisso del mio essere; e Rodolfo Valentino si era impossessato di me.
A intervalli (che io vivevo come un bambino che stia cadendo dal sonno, o che abbia la febbre), la presa sul mio io si allentava per un momento, o mezzo momento. Quasi all’istante il potere estraneo mi riprendeva in suo possesso con forza rinnovata, ma in quell’istante io acquisivo una consapevolezza frammentaria di ciò che l’altro vedeva, udiva, e provava, e il ricordo di quei momenti riesce ancora a scuotermi.
Perché ciò che l’altro vedeva, non solo nei bianchi, grigi e neri del vecchio schermo quadrato sul palco polveroso dell’Olympic, ma oltre, e ciò che provava, era più di quanto chiunque altro potesse sperimentare. Diritto sul sedile, proteso in avanti, coi pugni chiusi stretti al petto, il mento alto, non vedeva solo i baluginii dello schermo. Oltre i limiti dello schermo, nei suoi ricordi, un regista a occhi socchiusi, con un berretto di tela e un megafono in mano, lo scrutava. L’obiettivo di una macchina da presa su un treppiede di legno seguiva i suoi movimenti, e l’uomo dietro la macchina era chino sulle ginocchia, con l’occhio incollato al mirino; portava calzoni alla zuava, camicia bianca e cravatta, e il suo pugno destro girava in cerchio con un movimento assolutamente regolare, per filmare le immagini che il pubblico dell’Olympic stava vedendo in quel momento. Dietro la macchina da presa, un gruppo di curiosi e tecnici di studio, due dei quali in tuta, uno con un martello in mano. E al pianoforte, intento a suonare il tango, un uomo col panciotto e, stranamente, un cappello di feltro a tesa larga. Seduta davanti allo schermo, l’altra persona che non ero io vide tutte queste cose nel ricordo. E più di tutto, fu sommersa da un altro ricordo: la colossale sensazione di trionfo alla splendida consapevolezza, nel momento stesso in cui ballava, che quella sarebbe stata una grande scena.
Poi, il nulla improvviso. Il nulla puro; nemmeno il vuoto. Poi un altro momento di stordita semiconsapevolezza: il magnifico tango sullo schermo stava terminando. Stacco su un’altra scena, altri personaggi, e nell’istante dello stacco, la marea di un’unica sensazione. Un’ondata di disperazione così nera che non la descriverei in tutta la sua forza nemmeno se ne fossi capace. Una disperazione totale: l’insopportabile orrore del desiderio, del peggiore di tutti i desideri; il disperato rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere.
Negli occhi ancora rivolti allo schermo cominciarono a gonfiarsi lacrime. Scesero giù per le mie guance, e la mano di Marion si posò sul mio braccio. — Mi spiace, Rudy — mormorò lei. — Mi spiace tanto. Ma lui doveva sapere. Grazie.
La mia testa annuì, la mia mano si posò sulla sua per un istante, poi Valentino scomparve; e io rimasi a guardare lo schermo senza vedere, adesso sapendo ciò che non volevo sapere: quanto sia enorme il senso di perdita quando una vita, un talento e una carriera vengono bruscamente interrotti. L’ego umano è inconcepibilmente immenso, e ovviamente con l’eccezione dei politici del nostro Paese, nessuno ama se stesso più di un attore. Rodolfo Valentino, che all’epoca aveva solo trentun anni, aveva davanti a sé decenni di fama mondiale e adulazione. Tanto, tanto tempo. Ma avere perso all’improvviso, assurdamente, tutto quello. Evaporato! Scomparso ! Semplicemente, non era sopportabile.
— Adesso capisci? — Marion mi stava guardando, e io sbattei le palpebre, riuscii ad annuire, poi mi passai sugli occhi il dorso della mano.
— Sì. Gesù. Usciamo! — Mi ero alzato e avviato nella fila. Superai sei ginocchia, due barbe, e un paio di occhiali con la montatura in metallo che riflettevano lo schermo. Marion mi seguiva.
Tornando a casa, lasciai la capote abbassata. L’aria nebbiosa del tardo pomeriggio di San Francisco mi rinfrescò il viso. Non aprii bocca finché non ci fermammo a un semaforo, a un paio di isolati da casa. — Il povero figlio di puttana — sussurrai. — Il povero bastardo fregato. L’unica cosa che desiderasse era la sua carriera. Non credo abbia mai dedicato un solo pensiero alla Donna in Nero.
— Chi?
— La donna del mistero sempre vestita di nero, con la veletta, che tutti gli anni si recava sulla sua tomba. Certi anni ce ne sono state quattro o cinque.
Lei non mi ascoltava. Il semaforo diventò verde. Io ripartii, e Marion mormorò: — Prima o poi, tutti perdono la vita, e credimi, non è poi così brutto. Dopo che è successo, a tanta gente non dispiace troppo. Ma per quelli di noi che hanno visto interrompersi di colpo qualcosa di straordinario… — Scosse la testa. — Dovevo proprio farti capire, Nickie. E anche adesso, tu sai solo in parte. Perché Rudy non prova le mie stesse sensazioni. Lui non ha mai desiderato fare quello che sto facendo io. Ha accettato la situazione.
Svoltai in Divisadero, rallentai al marciapiede davanti a casa, frenai, spensi il motore, tirai al massimo il freno a mano, e Marion mi mise una mano sul braccio. — Aiutami, Nickie. Devi aiutarmi.
— Ma come , Marion, come ?
— Fai capire a Jan che dovrebbe aiutarmi! Solo per un anno. O sei mesi. Anche solo per un altro film! Userà la sua vita meglio di quanto stia facendo adesso. Faglielo capire, Nickie. Ti prego. Ti prego.
Mi chinai in avanti, appoggiai le braccia sul grande, vecchio volante in legno, e scrutai la strada immobile oltre il parabrezza. Mi sembrava vero; mi sembrava vero che Marion avesse bisogno di una piccola parte della vita di Jan più di quanto ne avesse bisogno Jan. Eppure… Guardai Marion e scossi la testa. — Non è giusto, Marion. Convincere Jan o chiunque altro a rinunciare a un pezzo della propria esistenza.
— Parlale! Raccontale quello che è successo oggi. Spiegale cosa hai provato. E lascia decidere a lei. Almeno potrai parlarle , no?
Dopo un attimo o due, annuii e scrollai le spalle. — Sì, questo posso farlo. Però poi spetterà a lei decidere.
— Va bene. Tu parlale. — Marion appoggiò la testa sul sedile, scrutò la nebbia che si muoveva pigramente nel cielo quasi buio. — Fra parentesi — aggiunse languida — mi sono ricordata quel nome.
Girai la testa di scatto e fissai Marion, ma lei non si mosse. Continuando a scrutare il cielo con espressione sognante, disse in tono indifferente: — Ore fa, per l’esattezza. Nell’appartamento. Ho guardato sull’elenco telefonico di L.A. intanto che tu eri in bagno. — Girò la testa di lato e mi guardò con occhi innocenti. — C’è ancora, Nickie, amore. L’uomo che aveva i film è ancora vivo. E io sono assolutamente certa che li possegga ancora. — Riportò lo sguardo sul cielo. — Per cui, vieni a Hollywood con me, e lo andremo a trovare. Ti dirò come si chiama… — Si voltò a sorridermi, dolce, amorevole. — Quando saremo là. Dopo che tu avrai parlato con Jan.
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