Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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— No. Non ancora. Perché tutta questa eccitazione , Nick? Lo so che i film ti interessano, però interessano anche a me, e a me non succede di…

Mi interessano ? — Dovetti ridere a quel verbo. — Ragazzi, se tu avessi mai collezionato qualcosa… Non lo hai mai fatto, eh?

— Soltanto uomini. — Marion mi sorrideva, come sempre contenta di ogni possibile tipo d’eccitazione. — Perché?

Non potevo restare fermo. Le mani infilate nelle tasche posteriori, mi misi a camminare avanti e indietro davanti a lei, in fretta. — Senti, se sei un collezionista, hai sempre il tuo… come si chiama?… il tuo Santo Graal. Un collezionista di manoscritti si immagina probabilmente nel retro di un vecchio, oscuro negozio di libri usati. Sul fondo di uno scaffale in un angolo buio, sotto una pigna di libri, trova un fascio di vecchie carte che sono lì da anni. Toglie lo spago, e controlla i fogli a uno a uno. Robaccia. E poi, a metà del fascio, eccolo lì. Gli cominciano a tremare le mani perché ha sotto gli occhi la grafia minuta che ha studiato tante volte sulle riproduzioni della firma dell’uomo. E la firma è l’unico esempio di manoscritto lasciato dall’uomo che sia mai stato ritrovato. Esposto in vetrina e sorvegliato notte e giorno al British Museum. Vale un milione di dollari, si pensa, se mai venisse messa in vendita. Eppure adesso… — Ero affascinato da me stesso, dalla mia eloquenza, e Marion sorrideva. — Adesso lui ha trovato pagine e pagine di quella grafia minuta, in un inchiostro arrugginito dal tempo. Con note ai margini! E poi, poi… Dopo molte pagine del manoscritto, trova un monologo. Le prime parole sono state cancellate con dei trattini, ma lui riesce a leggerle. E dicono… — Mi fermai a riflettere. — Dicono Esistere o morire è il mio dilemma , e la penna le ha cancellate. E appena sopra quelle parole, a lettere ancora più piccole, è scritto per la prima volta al mondo, dalla mano stessa dell’autore, Essere o non essere, ecco…

Lei scoppiò a ridere, e io sorrisi. — D’accordo. Okay. Ho esagerato. È ridicolo. Però non del tutto, Marion. Non del tutto. Il Rembrandt sconosciuto, appeso alla parete di un negozio Goodwill Thrift, in vendita per quattro dollari e mezzo, è stato trovato. Come una vecchia teiera di metallo che costava settantacinque cent, e che aveva sul fondo un’incisione a lettere talmente piccole e smangiate che nessun altro le aveva notate: P. Revere, Argentiere. Su una bancarella è stato acquistato per dieci cent un libriccino. Stampato a Boston nel 1827, stando alla prima pagina, che diceva anche Tamerlano e altre poesie di Edgar A. Poe. La molla del collezionismo è il sogno quasi impossibile. E vuoi sapere qual è il mio?

Marion annuì, sorridendo.

— Tutti i rulli… Tutti i quarantadue incredibili rulli del capolavoro perduto di Erich von Stroheim, Greed.

— Lui li aveva.

Non sai di cosa stai parlando !

— Sì che lo so! Ricordo quel film. A San Francisco ne parlavano tutti! Lo hanno girato qui, e io ho assistito a una parte delle riprese! Poi Von Stroheim lo ha terminato, ed era lungo decine e decine di rulli, e lo hanno tagliato brutalmente. È successo alla… M-G-M!

Annuii. Le mie parole erano un sussurro. — Sì. Lo hanno ridotto a dieci soli rulli. E adesso anche alcuni di quelli sono andati persi. Marion… — Mi accoccolai davanti a lei, a fissarla, e la mia voce era un soffio. — Sei sicura di ricordare bene? Aveva tutti e quarantadue i rulli ?

— Ma certo. Me ne ha parlato lui. Ha dovuto dare in cambio tre film della Paramount per averli. Ma li ha avuti.

Mi alzai, sedetti al suo fianco, le presi la mano, la guardai negli occhi. — Allora, Marion — le dissi dolcemente — adesso capisci? Capisci perché devi ricordare il suo nome?

Lei annuì. — Sì. Capisco. Quello che provi. — Liberò la mano con uno strattone e saltò su. — Perché tu non capisci quello che provo io? — Restò a fissarmi come se volesse incenerirmi, poi la sua espressione cambiò. — Senti, il cinematografo dove proiettano I quattro cavalieri dell’Apocalisse…

— L’Olympic. È un vecchio locale.

— Fanno matinée?

— Oggi è sabato, giusto? Sì, tutti i weekend.

— Portami a vederlo. — Feci per dire qualcosa, e lei si mise quasi a urlare. — Nickie, non discutere ! Sono stufa marcia di discussioni! Fallo e basta!

— Guarda che volevo dire di sì.

Diedi ad Al un paio di biscotti per cani a forma di osso, quelli che non gli piace molto mangiare ma che adora seppellire, e gli diedi anche una tiratina di coda. Poi portai Marion all’Olympic.

È un bellissimo, vecchio locale. Penso risalga proprio agli anni Venti. Gli spettacoli sono in vecchio stile totale, compreso l’accompagnamento d’organo. Trovano sempre ottime copie, e lì tutti prendono molto sul serio i film. Comperammo i popcorn, che vendono in sacchetti a strisce colorate del tutto fuori moda, e ci accomodammo. Per essere una matinée, c’era parecchia gente, ma trovammo due sedili vicini sul lato di una fila.

Le luci si spensero, l’organo cominciò a suonare, il vecchio sipario di velluto rosso si aprì in due cigolando, e iniziò un cinegiornale della Pathé. Un gallo cantò, muto, prima del marchio della casa cinematografica. Cullati da una musica d’organo perfettamente adatta, guardammo una corsa di cavalli ormai dimenticata. Vedemmo un senatore dell’Oklahoma, altrettanto dimenticato, sventolare le braccia dall’ultimo vagone di un treno; una didascalia ci disse che si era appena opposto con coraggio e decisione all’abrogazione dell’Atto Volstead. E guardammo uno scimpanzé su una bicicletta.

Poi ci venne proposto un coro: le parole di Rose Marie scivolarono in alto dal fondo dello schermo, verso dopo verso. L’organo suonava la canzone, e una palla bianca in movimento toccava ogni parola o sillaba nel momento in cui doveva essere cantata. Non molte persone accettarono il gioco, ma Marion lo fece, a voce alta e chiara, e ovviamente io dovetti imitarla, anche se mi abbassai un po’ sul sedile. Ma a quel punto, altre otto o dieci persone si unirono al coro, e poi anche qualche altra. Dopo cinque o sei versi a base di Rose-ma Reeee, yiii luh vue… Rose-ma Reee, mide ear , diventò divertente. Molto poetico. La fine della canzone mi diede una certa tristezza.

Apparvero i titoli di testa di I quattro cavalieri dell’Apocalisse , e ci preparammo spiritualmente a vederlo. All’inizio mi annoiai un po’ (lo avevo già visto due volte), ma ben presto il film mi conquistò, e ricominciai a godermelo. I quattro cavalieri è il film di Valentino con la famosa sequenza del tango, una grande, eccellente scena. Ai tavoli attorno alla pista da ballo di un caffè argentino, decine di clienti ammirano Rodolfo Valentino, nel costume da gaucho del suo personaggio, Julio, mentre balla con Helena Domingues in tenuta da spagnola, con tanto di lungo scialle a frange.

Valentino la tiene romanticamente incollata a sé, le fa rovesciare all’indietro la metà superiore del corpo, si china a fissarla negli occhi; è una scena che si può guardare per farsi due risate, oppure la si può godere sul serio. Io sono uno di quelli che se la godono. Mi irritano moltissimo gli idioti che, alla proiezione di un film muto, fanno sfoggio col resto del pubblico della loro sofisticata cultura sghignazzando di continuo. I vecchi stilemi di recitazione e le storie possono essere cretini, ma andate oltre la superficie, e spesso troverete una quantità di cose degne di essere viste.

Quella era una cosa degna di essere vista. È una grande scena di ballo (Valentino era un ballerino professionista prima di entrare nel cinema), e l’organista era eccellente, come accade di solito all’Olympic: il suo tango era sincronizzato alla perfezione coi movimenti degli attori, come una vera colonna sonora.

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