— Be’, digli che le persone col pelo sulle palpebre non sono affatto umane. Hai paura davvero?
— Sì. Non voglio che lei torni. Però…
— Lo so, lo so.
— Tu non sei per niente un essere umano. Sei un cane! Credi che non riusciamo a capire la differenza? — Sollevai la coda inerte di Al. — E questa ? — Alzai una delle sue lunghe orecchie. — Come la spieghi questa qui ? — Gli battei l’indice sul naso nero, gommoso. — E questo ! — Afferrai una zampa. — E questa! Abbiamo un sacco di indizi. Non puoi fregarci! — Guardai Jan, che si stava slacciando la gonna. — Ma se preferisci non farlo…
— Oh, no! No. Non possiamo. Andare avanti. All’infinito. Senza.
Al stava sbattendo fiaccamente la coda, e io gli feci notare: — Quel movimento è la prova decisiva, conclusiva. Tu sei un cane. Dai, vieni a prendere il tuo biscotto. — Lui si tirò su, sbadigliò, si stiracchiò, sorrise a Jan, e mi seguì in corridoio. Quando tornai, Jan era seduta sul letto. Aveva sulle labbra il sorriso rigido di un cadavere deciso a essere felice.
Non erano certo le condizioni ideali per fare l’amore, ma ci mettemmo all’opera, con lentezza, esitazione, coraggio. Cominciò ad andare un po’ meglio, poi molto meglio; poi diedi a Jan un bacio extra-speciale, e lei lo ricambiò con un altro in stile raccomandata espresso con ricevuta di ritorno, e le cose si misero sull’ottimo. Le dissi: — Tu sei una ragazzina molto sporcacciona, e io lo dirò a tua madre.
— Fai pure. Non ti crederà mai.
Le regalai un bacio lungo, intenso, che Jan ricambiò. Poi mi sollevai su un gomito e accesi la luce. Jan mi fissò esterrefatta. — Jan?
— Sì , per amor del cielo!
Spensi la luce, la riaccesi immediatamente. — Dove sei nata?
— Cosa ?
— Dove sei…
— Kankakee, Illinois! Mio Dio!
Tesi la mano verso l’interruttore, mi fermai. — Qual è il cognome da ragazza di tua madre?
— Sellers !
Spensi la luce. Jan mi si avvicinò nel buio. Appoggiandole le labbra all’orecchio, mormorai: — Qual è il tuo numero di assistenza sanitaria?
Lei rispose dolcemente: — 481-03-2660.
— Amore — dissi; e finalmente Jan e io facemmo la pace sul serio.
Il venerdì arrivò e finalmente passò, e adesso avevo davanti tre lunghe settimane di ferie. Non avevamo intenzione di combinare molto, però era sempre una vacanza, e così tornai a casa pronto a celebrare: saremmo usciti a cena con Fritz e Anita Kahker.
Arrivai a casa, e Anita aveva telefonato nel pomeriggio. Si era presa l’influenza; bisognava rimandare la cena. Non volevo accettare l’idea, non volevo restare chiuso nel nostro appartamento un’altra sera; volevo fare qualcosa per celebrare. Non sapevo cosa. E alla fine andammo al cinema.
Non c’era niente di interessante da vedere. Lessi ogni singolo titolo sulle pagine rosa del Chronicle della domenica, le pagine degli spettacoli che conserviamo per avere il quadro generale della settimana, e nell’intera città o nei dintorni non c’era un solo film degno di essere visto, ma uscimmo lo stesso. Andammo a vedere un western del quale non avevo mai sentito parlare, cosa rara per me, al Metro di Union Street, e fu un enorme errore.
Comperai il popcorn, per festeggiare sul serio, ma Jan non ne voleva, e ci guardammo il maledetto film, un Technicolor a grande schermo. Tentai di interessarmi per lo meno al paesaggio, che era molto spettacolare. La colonna sonora si gonfiava in frequenti crescendo e poi piombava in drammatici silenzi. Il vento ululava nei canyon, i proiettili fischiavano e facevano schioccare l’aria in strade polverose, gli zoccoli battevano il terreno, le ruote dei carri cigolavano; e persone che vivevano nel miUeottocentosettanta o giù di lì, anticipando con grande sagacia l’idioma dei nostri giorni, dicevano cose come: — Ma tu crederesti a duecento indiani?
Cominciai a richiamare alla memoria i nomi degli interpreti secondari, i titoli degli altri film nei quali li avevo già visti; nessun film è uno spreco totale di tempo, per me. Ma quando lanciai un’occhiata a Jan a metà della proiezione, lei dormiva, col mento abbassato sul petto. Sapevo che non avrei dovuto trascinarla lì, e se fosse stata sveglia le avrei proposto di uscire. Ma cominciavo a nutrire un vago interesse per gli sviluppi della trama, e lei dormiva tranquilla, e così restammo. Più tardi, quando vidi che si era svegliata, mi girai per chiederle se volesse andarsene, ma adesso sembrava che il film le piacesse. Sorrideva a bocca socchiusa, ascoltava attentamente, e così restammo sino alla fine.
Le luci si accesero, lo scarso pubblico si alzò per uscire, e lei si girò verso me. — Che meraviglia! — disse, e io sorrisi al suo sarcasmo.
— Sì, grande. — Aspettai che Jan si alzasse, ma lei continuava a fissare lo schermo bianco.
— Quei paesaggi! — disse, e io mi resi conto che c’era una nota eccitata nella sua voce. La gente che avanzava lentamente tra le poltrone della nostra fila si voltò a guardarci. — I costumi! — disse lei, continuando a fissare lo schermo. — E il colore ! — Si girò a guardarmi. — Nickie, bastardo, non mi hai detto che i film sono a colori! E che lo schermo è così grande ! — Si chinò verso me, a occhi sgranati. Gli altri spettatori sorridevano apertamente, e la sua voce si abbassò a un sussurro. — E che parlano. Oh, Nickie, sono tornata a dare un’ultima occhiata al mondo, ed è una fortuna che lo abbia fatto. — La sua voce si alzò di nuovo, eccitata, esuberante. — Ma immagina ! Puoi davvero sentire quello che dicono ! Ragazzi! Ragazzi, ragazzi, RAGAZZI!
Sbatté le palpebre e diede un’occhiata allo scherma. — Oh. Il film è finito. — Si alzò di fretta, si girò a raccogliere la giacca. — Mi spiace. Penso di essermi addormentata. — Infilando il braccio nella manica della giacca mentre ci avviavamo tra le poltrone, Jan chiese sottovoce: — Era atroce, eh? Ma sai una cosa? — Mi prese sottobraccio e puntò verso l’uscita. — Sento dentro lo stesso tipo di calore e piacere che a volte provo dopo avere visto un film meraviglioso.
Quel mattino c’erano due motivi per alzarsi tardi: non solo era sabato; era anche il mio primo giorno di ferie, e io feci del mio meglio. A occhi ancora chiusi, restai sdraiato a raccontarmi che avevo sonno e mi sarei subito rimesso a dormire, ma dietro le palpebre ero perfettamente sveglio. Perché sapevo.
Mi resi conto che non c’erano suoni in camera da letto; nessun movimento, nessuna presenza al mio fianco, e i miei occhi si aprirono di scatto. La testa si girò a guardare il lato del letto di Jan, vuoto, con le lenzuola scostate. Poi mi rizzai a sedere, e guardai sul pavimento. Da per tutto erano sparsi brandelli di stoffa dagli orli sfilacciati: il vestito nero di Jan, il suo abito migliore, ridotto a decine di frammenti.
Vestendomi il più in fretta possibile, dissi: — Porca miseria. Porcaccia miseria! — ma udii la falsa veemenza della mia voce, e per un istante mi immobilizzai. Poi annuii, e finalmente lo ammisi con me stesso: Marion mi era mancata. Mi era mancata per tutta la settimana. Era una cosa incontrollabile.
Dirò questo a mia difesa. Afferrando la prima camicia che trovai, una camicia bianca, e allacciando solo un bottone sì e uno no; acchiappando un paio di calzoni marroni; infilando i piedi nudi in un paio di mocassini: facendo tutto questo, ebbi il buon gusto di non cercare di dare la colpa a Jan. A quanto sembrava, occorreva qualcun altro, una donna scapestrata ed esuberante come Marion, per portare a galla quello che chiaramente non era il mio vero io, ma un altro uomo stramaledettamente più capace di divertirsi. Non mi piaceva l’idea, non mi piacevano le sue implicazioni, non volevo pensarci; mi rendeva triste; ed era quella la sensazione che volevo provare pensando a Jan.
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