Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Dopo un po’ si tirò su, fece le sue scuse, e io sorrisi, le dissi che era tutto a posto, e… Be’, sopravvivemmo anche a martedì.

Un mercoledì sì e uno no, Jan scendeva a giocare a bridge con Myrtle Platt e un paio di amiche di Myrtle, e Al e io le davamo sempre una mano con i piatti, in modo che potesse uscire al più presto: Al faceva fuori gli avanzi che gli gettavo mentre davo una prima ripulita ai piatti che Jan doveva lavare. Lei si cambiò d’abito, scese, e io mi aggirai un po’ per casa, in cerca di qualcosa da leggere. Quel giorno era arrivato un catalogo di film della Blackhawk, e io sedetti sotto il bovindo (c’era ancora un po’ di luce solare) e segnai un paio di cose che mi sarebbe piaciuto comperare prima o poi, magari per Natale: la versione del 1920 di Il dottor Jekyll e Mr. Hyde , con Nita Naldi, il mio secondo nome preferito nella storia del cinema muto (il primo è Lya de Putti), e magari The Social Secretary con Norma Talmadge ed Erich von Stroheim. Misi giù il catalogo, e per qualche momento restai a guardare la parete di Marion. Marion Marsh ha vissuto qui , lessi di nuovo. 14 giugno 1926. Lo schienale del divano nascondeva il resto. Poi mi alzai, andai in cucina, sollevai il ricevitore del telefono, e composi il prefisso di zona e il numero di mio padre. Erano circa le venti da noi, le ventidue a Chicago. Lui rispose, e chiacchierammo: di tanto in tanto, uno di noi due chiamava l’altro, soprattutto quando eravamo in ritardo con la corrispondenza. Papà aveva incontrato al Loop un mio vecchio amico, Eddie Krueger, che aveva frequentato molto casa nostra quando io facevo le superiori e quando tornavo a casa dal college per le vacanze, con mia madre ancora viva. — E — disse papà — il clima fa schifo, ma c’era da aspettarselo.

— Già. Senti, volevo chiederti una cosa, papà. Semplice curiosità, ma ci sto pensando da un po’.

— Spara.

— Okay. I Venti. Mi chiedevo…

— I cosa?

— Gli anni Venti. Millenovecentoventi e dintorni.

— Ah. Cosa volevi sapere?

— Erano davvero grandi come si legge sempre? Erano proprio così diversi da oggi? La gente era diversa?

Ci fu una lunga pausa. Nel timore che fosse caduta la linea, aprii la bocca per aggiungere qualcosa, ma mio padre rispose proprio allora. — Be’, ci ho riflettuto anch’io. Devi tenere presente che almeno una parte dei Venti sono stati anche i miei vent’anni. Ero giovane, spensierato, e quando ripensi alla tua giovinezza tendi a vederla attraverso lenti colorate di rosa. E in generale, tendiamo a ricordare il bello del passato e dimenticare il brutto. Sugli anni Venti si è fatta anche molta propaganda. Sono stati molto esaltati. Posto tutto questo, Nick, avendo a mente queste cose e tenendole ben presenti… la risposta è diavolo, sì. Ah, Nick, sono stati un grande periodo. Un’epoca così diversa. Tutto era diverso, allora. Era un momento splendido e glorioso per essere vivi e giovani.

— Ma perché ? In che senso ?

Un’altra pausa. — Non riuscirò a spiegartelo esattamente. Le cose erano così maledettamente diverse. L’epoca, l’aspetto esteriore delle cose, il Paese stesso. Al diavolo, persino l’odore delle drogherie. E mio Dio, sì, la gente era diversa. Eravamo più fessi. Nemmeno lontanamente furbi quanto voi. A ventun anni, non mi è mai passata per la testa l’idea di mettere in discussione il perché di un certo stato di cose. Così come tu non metteresti in discussione il fatto che al mattino debba spuntare il sole, o che d’inverno debba nevicare. Però a me sembra che fossimo più cordiali. Più tolleranti. Non ricordo l’odio che esiste oggi. Eravamo più rilassati, più interessati alle cose. Eravamo più vivi, cavoli! Sapevamo divertirci. Credo sapessimo a cosa serve vivere. Non riesco proprio a spiegartelo, Nick. Era solo un’epoca migliore. Ritengo di essere stato fortunato a essere giovane negli anni Venti. E provo tristezza per i giovani di oggi. È tutto così maledettamente cupo.

Parlammo ancora un po’. Mi chiesi cosa avrebbe detto papà se gli avessi raccontato di Marion, ma ovviamente stetti zitto. Quando Jan tornò, io dormivo. Avevano giocato un rubber in più, mi disse a colazione, ed era stato lungo.

Verso le dieci di sera di giovedì, misi giù una rivista e guardai Jan. Stava lavorando a maglia su qualcosa che prima o poi, in teoria, si sarebbe trasformato in un maglione per me. Restai a guardarla, sapendo benissimo che in effetti dal suo lavoro sarebbe uscito un maglione. Però, emotivamente, mi è sempre impossibile credere che impastando una matassa di filo di lana con un paio di ferri si possa ottenere un capo d’abbigliamento davvero indossabile: cosa lo tiene assieme ?

Jan sapeva che la stavo guardando, e finse di non saperlo. Indossava una blusa bianca e una gonna nera, piuttosto severa; però era molto, molto carina. Dissi: — Jan — e lei alzò gli occhi con un sorriso luminoso. I ferri si fermarono. — Se vuoi perdonare la banalità della frase, non possiamo andare avanti in questo modo.

— Lo so… — Lei riabbassò gli occhi sul suo lavoro.

— Allora, se posso offrire un suggerimento a una signora, perché non ci trasferiamo tranquilli e contenti in camera da letto, mano nella mano, e non ci facciamo una scopata?

Lei arrossì come un peperone.

Jan e io dobbiamo essere i fanalini di coda dell’ultima generazione cresciuta nella convinzione che esistano “brutte parole”. Tanti nostri amici sono solo poco più giovani, appena un paio d’anni o giù di lì, ma questa minima differenza deve essere la linea di confine, e loro sono capaci di pronunciare queste parole senza problemi. E anche se sono persone per bene, molto educate, che si guarderebbero dal menzionare certi termini se qualcun altro non ne accennasse, la differenza è lo stesso palpabile. Io me la sono cavata decentemente: ho fatto il militare, e sono un maschio. Ma Jan ha avuto enormi problemi. Ho scoperto (me lo ha confessato lei) che ha fatto pratica in casa. Lavando i piatti della colazione, per esempio, sola in casa, con le mani infilate nell’acqua saponata, si preparava spiritualmente, poi inspirava una boccata d’aria e diceva: — Fottere! — Dapprima, le è parso un verbo tutto sbagliato, capace di provocare scontri e tensioni, assolutamente inadatto alla buona società. Ma ha perseverato, si è abituata a inserire quella e altre parole de rigueur in frasi da tutti i giorni, allenandosi come si potrebbe fare per perfezionare l’accento francese; e finalmente è riuscita a lasciar cadere quei termini nelle sue frasi con la più totale indifferenza, senza sospetti d’enfasi o di mancanza d’enfasi. Alla fine, ha tentato esperimenti dal vivo in quelle che mio padre definirebbe “compagnie eterogenee”, e ha ottenuto splendidi risultati. Le veniva perfettamente naturale; l’unico problema era che assumeva un colorito rosso acceso, e rimaneva in quello stato per trenta minuti.

Adesso era rossa in volto, ma annuì allegramente. — Lasciami solo finire questo ferro.

Quando lei arrivò in camera da letto, io mi stavo abbottonando la giacca del pigiama, e con le dita dei piedi grattavo le costole di Al; lui era sdraiato sul nostro scendiletto, in preda al suo coma del dopocena. — Sarà meglio biscottarlo fuori — disse Jan.

Mi accoccolai a fianco di Al e gli battei sulla spalla. Un occhio castano si socchiuse di qualche millimetro, e io gli feci l’imperioso gesto dell’arbitro che espelle un giocatore, battendo col pollice sul suo corpo, e l’occhio si chiuse. — Dice che non ha voglia di uscire.

— Be’, deve uscire. Nickie… Ho paura.

— Già, anch’io. — Battei di nuovo sulla spalla di Al. Questa volta lui non aprì un occhio. — Dice che ha diritto a restare qui quanto chiunque altro. Dice che è un essere umano anche lui.

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