Ricordo di avere chiuso la portiera della Packard, di avere abbandonato la testa sulla pelle imbottita del sedile, di avere sentito sbattere l’altra portiera e il motore accendersi.
Quando mi svegliai, al volante c’era Marion, e anche se restava dello champagne nelle mie vene e nella mia mente, ancora non mi pareva di essere ubriaco. Aprii gli occhi, con la testa appoggiata all’indietro. Vidi il profilo basso di un edificio scorrere al nostro fianco, e mi resi conto di averlo già visto in passato. Stavamo rallentando all’altezza del marciapiede; era stato quello a svegliarmi. E sì, conoscevo le superfici a tegole del tetto, le mura con lo stucco beige, le porte ad arco di quell’edificio vagamente in stile missione. Cos’era?
Mi tirai su, restai a guardare mentre ci fermavamo. Marion tirò il freno a mano, spense motore e fari. L’edificio era ancora bello, però ormai vecchio, debolmente illuminato da luci troppo scarse; e accanto al lungo marciapiede con il bordo dipinto di rosso non era parcheggiata nemmeno un’altra automobile. — Nick, spicciati! Sistema l’automobile da qualche parte, portala in un garage. Faremo tardi! — Mi girai. Avvolta nel soprabito di Jan, Marion stava scendendo. Chiuse la portiera, fece il giro dell’auto, corse sul marciapiede, ed entrò da una delle porte a due ante disseminate lungo tutta la facciata dell’edificio.
Non sapevo di cosa stesse parlando Marion, però adesso sapevo dove ci trovassimo: eravamo alla stazione ferroviaria. Dopo un momento o giù di lì, scesi dall’auto, entrai, e mi fermai. Al lato opposto del locale, Marion era a uno sportello della biglietteria, girata di schiena. A parte l’impiegato allo sportello, c’era solo un’altra persona in tutta la sala d’attesa, un vecchio che aspettava seduto su una delle lunghe panche in legno. In mezzo ai piedi teneva un sacchetto di carta marrone con l’intera superficie spiegazzata, come fosse stata piegata e ripiegata un’infinità di volte.
Marion si girò, lasciò lo sportello, arrivò al centro della sala e si fermò. Io mi incamminai verso lei, ma lei non mi vide subito. Si stava guardando attorno, scrutava la vecchia stazione, studiava persino il soffitto. Avvicinandomi, notai che i suoi occhi erano esterrefatti. Quando udì i miei passi, si girò. — Nick, dice che il Lark non c’è più! — Si voltò a guardare l’impiegato all’unico sportello aperto; un ragazzo di non più di diciannove anni, un messicano con un filo di baffi, in maniche di camicia. I gomiti sul piano dello sportello, il mento sulle palme delle mani, leggeva una rivista. — Dice che non c’è più nessun treno notturno per Los Angeles! — Le parole di Marion erano un gemito. Temevo che potesse mettersi a piangere.
— Lo so. — Tesi una mano sul suo gomito. Dolcemente, le dissi: — Marion, la gente non viaggia più in treno. Non ce ne sono quasi più.
Lei non rispose, non si mosse. Si guardò attorno, a lungo. Scrutò la panche deserte e male in arnese; la lunga fila di sportelli, quasi tutti chiusi da assi di compensato; il ristorante dalla vetrina polverosa in un angolo della sala d’aspetto, con le grandi maniglie della porta d’ingresso bloccate da catena e lucchetto; il grande cartello elettrico in alto con la scritta ARRIVI-PARTENZE, che al momento annunciava solo il nulla; la tavola calda smantellata, con la fila di supporti metallici degli sgabelli ancora inchiodata al pavimento, mentre gli sgabelli erano scomparsi. Disse: — Sono venuta qui una sera. Recitavo all’Alcazar. Ero nel primo e nel terzo atto, ma non nel secondo, così ho avuto il tempo di correre qui e tornare a teatro per rientrare in scena. Doug Fairbanks e Mary Pickford stavano partendo per Hollywood.
“Tornavano a casa a Pickfair. Si erano fermati qui tre giorni. Avevano visto la commedia in cui recitavo la seconda sera, dalla quinta fila. Li avevo riconosciuti. E adesso rientravano a Hollywood. Sul Lark , ovviamente. Sono arrivata qui in tempo per vederli scendere da una grossa automobile verde scuro, con la capote di tela abbassata. Era una bella sera. È successo proprio lì.” Annuì in direzione della strada e si avviò verso la porta aperta. Io la seguii, continuando a tenerla per il gomito. “Doug salutava con la mano e sorrideva, con quel suo meraviglioso sorriso, e intanto aiutava Mary a scendere dall’auto. E anche lei aveva sulle labbra il suo bellissimo sorriso.” Ci fermammo sul marciapiede. Marion fissò la strada buia, deserta. “Lei aveva tra le braccia un mazzo enorme di rose gialle. E la loro automobile era ferma esattamente dove ho parcheggiato la tua. Qualcuno aveva tenuto libero lo spazio per loro. Però io non sono riuscita ad avvicinarmi. Sul marciapiede e in strada dovevano esserci un migliaio di persone che urlavano ‘Doug! Mary!’ Quelli più vicini cercavano di toccarli. Doug continuava a sorridere, e teneva un braccio attorno a Mary, e intanto percorrevano il marciapiede. Proprio qui, in questo punto esatto! La gente che arrivava per prendere il Lark… ce n’erano centinaia tutte le sere, Nick!… era costretta a scendere da taxi e automobili in mezzo alla strada, ai margini della folla. E la gente si alzava sui predellini delle auto, saltava in aria per cercare di vedere Doug e Mary sopra le teste della folla. Poi tutti li hanno seguiti dentro. Le entrate erano intasate. Siamo andati tutti a vederli partire. Quando il Lark ha lasciato la stazione, in perfetto orario, Doug e Mary erano sulla piattaforma panoramica, appena sopra il grosso cartello rotondo che diceva Lark. Doug salutava la folla col braccio, e Mary lanciava le sue rose alla gente, a una a una. Qualcuno si è messo a correre sul marciapiede a fianco del treno per poterli vedere fino in ultimo. Doug ha continuato a salutare e Mary a scoccare baci finché il treno non è scomparso in lontananza, e noi abbiamo risposto ai loro saluti finché sono rimasti solo due fanalini rossi e il cartello illuminato con la scritta Lark .” Marion si girò a guardare la facciata scolorita della stazione, poi si voltò di scatto, e percorremmo il marciapiede deserto fino all’automobile.
Guidai io, tenendo d’occhio Marion. Si girava a guardare la città che correva al nostro fianco, abbassava gli occhi sul pavimento dell’automobile, guardava di nuovo la città. Dopo un po’, a occhi bassi, disse: — Portami a O’Farrell Street, ti spiace, Nick? Tra la Mason e la Powell — e io annuii.
Attraversai Market Street, imboccai la O’Farrell, aspettai a un semaforo della Mason, poi ripartii lentamente verso la Powell. A metà di un isolato rallentai. — Qui?
— Un po’ più avanti, credo… No, adesso siamo troppo avanti. Oppure no? Aspetta.
Accostai al marciapiede. La capote era ancora abbassata, e Marion si girò a guardare dal retro dell’auto, poi si chinò in avanti, scrutando dal parabrezza. Studiò un edificio appena davanti a noi, sull’altro lato della via. — Moatle? E cosa significa? — Indicava un’enorme insegna in plastica gialla, rossa e bianca sulla facciata dell’edificio.
— Motel — la corressi. — È… una specie di hotel. Però senza atrio o cose del genere. Soltanto stanze e il posto per parcheggiare l’automobile… — La mia voce si spense. Marion stava scuotendo la testa per zittirmi. Chiuse gli occhi e girò la testa nella direzione opposta.
Poi riaprì gli occhi e fissò di nuovo il motel. — Ma guardalo! — disse, rabbiosa. — Gesù, com’è brutto! Portami via di qui, Nick. Un tempo lì c’era l’Alcazar.
Un isolato più avanti chiesi: — Qualcosa d’altro?
— Niente.
— Allora forse dovresti spiegarmi cosa avevi in mente prima. Alla stazione.
Irrequieta, lei rispose: — Dovevamo andare a Hollywood.
— A Hollywood. — Annuii. — E perché?
— Perché ? Hai visto Ragazze focose ! Ero grande — disse semplicemente lei. — Stavo già lavorando in un altro film. E in quello ero ancora più grande. Saremmo andati a Hollywood, Nickie. Come avremmo dovuto fare l’altra volta! Così avrei potuto riprendere la mia carriera.
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