Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Il vassoio vibrò nelle mie mani per tutto il tragitto; i liquidi si rovesciarono. Arrivai in camera da letto. Il viso di Jan era bianco come un osso, sopra la camicia da notte rosa e lo scialle scuro che le copriva le spalle: aveva bevuto più gin di me. Era seduta contro il cuscino, e mi disse: — Oh, grazie a Dio. Io non sarei mai riuscita ad alzarmi. Sarei morta di fame qui. Grazie, Nickie, amore — aggiunse, in un tono così dolce e adorante che la mia coscienza cominciò a pulsare più della testa.

— Ho fatto tutto al tatto. Non osavo aprire gli occhi. — Misi il vassoio al centro del letto e mi arrampicai su. Poi, lentamente, lentissimamente, masticando per puro sforzo di volontà, deglutendo con la massima attenzione, mangiammo il pane tostato. Lo mandammo giù con minuscoli sorsi di uno champagne gelido e incredibilmente delizioso; poi passammo alle aspirine e al caffè. Alla seconda tazza, chiesi: — Come stai?

Jan rifletté, stringendo la tazza con entrambe le mani. — Meglio — rispose, un poco sorpresa. — Il mal di testa non è troppo terribile. Si vede che l’aspirina sta facendo effetto. E mi sento un po’ meno a pezzi in generale. Il caffè e il pane tostato, suppongo.

— Con la fondamentale assistenza dello champagne. Queste cose non bisognerebbe farle, sai. Se no si finisce diritti sulla strada dell’alcolismo.

— Be’, dà una mano. — Sorseggiò un altro po’ di champagne, un altro po’ di caffè, poi sospirò, mise giù la tazza, adagiò la testa sul cuscino, chiuse gli occhi, e si appisolò.

Io restai a guardarla, pallida e vulnerabile: quella era Jan, era mia moglie. La sera prima, e quella prima ancora, io la avevo… Non importava che il corpo fosse suo; avevo posseduto un’altra donna, su quello non c’era il minimo dubbio. Ogni tanto mi ero concesso qualche fantasia su altre donne, però la risposta ai nostri problemi non era mai stata un’altra persona; io volevo sistemare le cose con Jan. Continuai a guardarla, mentre le sue guance riprendevano colore, e ricordai i tempi prima del matrimonio, ricordai la luna di miele, cose del genere. Provavo molta tenerezza per lei, e l’impulso quasi aggressivo di proteggerla. Poi scivolai nel sonno anch’io.

— Nick?

— Sì? — Aprii gli occhi ed eseguii un veloce controllo dei miei sistemi. Sì, stavo proprio guarendo.

Cos’è successo ieri sera? Non ricor… — La sua voce si spense. Jan, aggrottata, fissò i piedi del letto. Poi riportò lo sguardo su me. — Nick! Ieri sera. Ho… ballato ? Sì?

— Be’, sì. Un po’.

— Da sola?

Io annuii, guardandola.

— Strano. Quasi non ricordo. Riesco a intravedermi per un attimo, poi l’immagine scompare. — Sgranò gli occhi. — E ho anche cantato , vero? Sulla piattaforma.

Annuii di nuovo.

— Oh, Nick, ma è mostruoso ! — Jan si coprì il viso con le mani. — Perché non mi hai fermata ? Cosa dirò agli Hurst? — Abbassò le mani e mi fissò, colma di meraviglia. — E poi… Non sono del tutto sicura di ricordare. È come un sogno che mi sfugge. Però… Non abbiamo fatto un giro in auto? A velocità folle ? Sbandando in curva? E tu non hai… Sì, Nick. Tu hai lanciato una bottiglia contro un albero!

Annuii un’altra volta.

— Non capisco. Noi non siamo tipi da sbronze! — Jan restò a fissarmi.

Non sapevo cosa rispondere. Non sapevo nemmeno se fosse il caso di dire qualcosa. Scrollai le spalle. — Be’, a volte succede. A tradimento. — C’era un inizio di colore sulle sue guance, ma sotto gli occhi Jan aveva borse nere. Era delicata, fragile, e un’ondata di colpevole tenerezza corse nel mio corpo. — Sono contento che tu ti senta meglio.

Lei sorrise al tono di verità della mia voce. — Lo so. Stai meglio anche tu, no? — Annuii. — Ne sono lieta.

Mi chinai su lei e la baciai teneramente. Poi mi sporsi sul vassoio, presi fra le mani le sue spalle, e la baciai di nuovo, molto più a lungo, con forza. Volevo chiederle perdono per ciò che avevo fatto, e mi pareva che quello fosse il modo giusto. — Ehi! — Jan finse di restare senza fiato. — Che storia è questa? E col doposbornia e tutto quanto.

Sorrisi. — Specialmente con un doposbornia. A me succede così. Non so perché. Mi è sempre successo.

— Sempre? Il che significa…

— Lasciamo perdere la storia antica. Quello che conta è l’oggi. — Mi sporsi ancora sul vassoio, protendendomi verso lei.

— Allora forse è il caso di liberarci di questo, santo cielo. — Jan prese il vassoio e lo mise sul pavimento. Poi si girò verso me, e ci baciammo, a lungo ma dolcemente. Poi appoggiammo tutti e due la testa su un unico cuscino. Sorridemmo, felici l’uno dell’altra, felici di sapere che stavamo per fare l’amore: una sensazione tranquilla, familiare, quasi languida, accentuata dagli ultimi residui del doposbornia.

Ci baciammo di nuovo, ci avvicinammo, ci mettemmo comodi. Jan cercò e trovò il fazzoletto che tiene sotto il cuscino e si soffiò il naso. Io tirai la coperta fin sopra le spalle di tutti e due e sprimacciai il cuscino. Alla base del mio collo era iniziata una pulsazione, un’emicrania indecisa se tornare o no. Ma non mi importava. Dovevo scaricare il fardello dei sensi di colpa nei confronti di Jan, e la cosa bella era che mi piaceva farlo. Adesso la baciavo con lenta passione, e lei rispondeva. I miei sensi cominciavano a risvegliarsi, e io sorrisi di sollievo perché mi stava piacendo quanto la sera prima. Anzi, anche di più. Le mani di Jan si intrecciarono sotto la mia nuca, e lei mi attirò a sé, baciandomi una volta e un’altra e un’altra, a raffica, con forza. Io strinsi le braccia attorno al suo corpo sino a farla boccheggiare. — Jan?

— Sì?…

Provai la travolgente tentazione di convincermi che mi ero ingannato. Avrei voluto crederlo. Gesù, quanto avrei voluto. Ma sapevo che quello era il momento della verità, il test che dovevo assolutamente superare. La spinsi via con tanta violenza che le sue mani intrecciate si divisero in maniera brutale, e lei urlò. Ma io continuai a spingere freneticamente, usando entrambe le mani. — No, porca miseria, no! — Stavo urlando. — Sei tu, e lo so!

— Oh, che differenza fa? — disse Marion, rabbiosa.

— Tutta la differenza di questo mondo! — Avevo steso le gambe per tenerla lontana; la pianta di un piede era premuta contro il suo stomaco.

— Già, è proprio così , no? Tutta la differenza di questo mondo. — Il viso di Jan mi sorrideva, ma gli occhi, sensuali e maliziosi, erano quelli di Marion.

Sono un patito di film muti, definizione che non mi piace molto, ma non ne ho una migliore. E ho visto molte vecchie cose di Keaton, Laurel e Hardy, Chaplin, Mack Sennett. Quindi so che i migliori pezzi forti delle vecchie comiche sono tutt’altro che abborracciati. Poste le premesse iniziali, alcune di queste bellissime vecchie sequenze (come Keaton e il mortaio sul carrello ferroviario, in Il generale ) hanno una logica meravigliosa; ogni evento nasce inevitabilmente dal precedente. In un senso molto bizzarro, sono realistiche; sono scene che potrebbero succedere. Quindi, non mi meravigliò scoprire che ciò che accadde lì, nella mia camera da letto, si trasformasse in qualcosa che i poliziotti delle comiche avrebbero capito.

Lei cercò di spostarsi verso me, ma il mio piede era ancora premuto contro il suo stomaco, la teneva ferma; e lei disse: — Nickie, tu ne hai voglia, e lo sai!

Lo sapevo. — No, non ne ho nessuna voglia. Adesso piantala.

All’improvviso, lei fece correre una mano sulla mia gamba, sotto i calzoni del pigiama, grattando con le dita, e la mia gamba si ritrasse per un riflesso automatico. All’istante, lei strisciò verso me, e io abbassai un piede sul pavimento e mi alzai su una gamba sola, traballando. Lei si scaraventò verso me, ridendo come un’ossessa, e una mano scattò ad afferrare un’estremità della cordicella del mio pigiama. La mano diede uno strattone, il nodo si sciolse, e i miei calzoni precipitarono sul pavimento in una pozzanghera di stoffa bianca che mi arrivava alle caviglie. Io mi chinai subito a raccoglierli, ma lei era ormai all’orlo del letto, tentava di abbrancarmi, e io schizzai all’indietro. Un piede uscì dai calzoni, che mi seguirono nella corsa penzolando dall’altra caviglia. Marion stava rotolando giù dal letto in un turbinio di camicia da notte rosa e gambe scaldanti. Io mi sentivo nudo, scoperto. Abbassando con una mano l’orlo della giacca, corsi nella stanza, e liberai l’altro piede dai calzoni. Sul fondo della stanza c’è un grande armadio che occupa tutta la parete. L’anta più vicina a me era aperta, e io entrai. È un’anta scorrevole; la richiusi subito.

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