Ma dopo qualche centinaio di metri rallentai, pigiai sui freni, poi imboccai una stradina che portava a una fattoria le cui luci brillavano lontane. C’erano cavalli in un campo, e alberi coi rami che si protendevano sulla strada. Fermai sotto gli alberi, misi il freno a mano, spensi motore e fari. Dovevamo parlare.
Marion stava scivolando sul sedile al mio fianco, e la gonna le risaliva su per le cosce. Si girò verso me, sollevò le braccia. — Oh, Nickie, Nickie — disse. — È così bello essere tornata.
— Ferma. — Dovetti alzare una mano. — Senti, tu sei convinta che io sia mio padre?
— Ma no, naturalmente. Lo credevo ieri sera. Quando abbiamo visto il mio film. Ero ancora confusa. Lo sai? Si perde il senso del tempo. Perché non ha più alcuna importanza.
— Questi non sono gli anni Venti.
— Com’è vero! Che razza di party. Tutti che se ne stanno lì a parlare di asili infantili! Che cavolo di party era? Nessuno che si sbronzasse. Cos’era quel grosso ponte rosso che abbiamo attraversato?
— Il Golden Gate Bridge.
— Che fine hanno fatto i traghetti?
— Eliminati.
— Buonanotte! Che fesseria! Erano divertenti.
— Be’, abbiamo tenuto i tram. Qualcuno.
— Fantastico. Oh, senti! Dempsey ha battuto Tunney?
— No. Ha vinto Tunney. Due volte. C’è stata la rivincita.
— Accidenti. Dempsey è così attraente, molto più carino del principe di Galles. In che anno siamo?
— Millenovecentottantacinque.
— Cosa? Cavoli, ma sono passati… cinquantasette anni.
— Cinquantanove.
— Odio l’aritmetica. Il che significa che io ho…
— Ottant’anni.
Lei restò a bocca aperta, poi sorrise. — No, non è vero. E tu lo sai.
Qualcosa si mosse nei recessi della mia mente. Era lì da un po’ di tempo, e adesso si fece avanti, imponendosi alla mia attenzione. — Marion… Ieri sera. Dopo il film. Eri… tu?
Lei si appoggiò alla portiera e mi guardò. Le sue spalle tremavano in una risata muta. Poi annuì.
Mi scostai. Mi girai a fissare gli alberi al nostro fianco. Sentii Marion scivolare sul sedile verso me, poi mi tirò una gomitata al fianco. — Ehi — disse sottovoce — cosa c’è di tanto interessante lì? Ehi, Nickie, guardami! — Io scossi la testa. — Perché no?
— No, all’inferno! — Mi voltai a guardarla, poi scossi la testa, incredulo. — Signore, me ne sto qui a guardare la faccia e il corpo di mia moglie, e parlo con te del fatto che l’ho tradita! È una specie di incesto! Però peggio! — Appoggiai i gomiti sul bordo del grande volante in legno e mi presi la faccia tra le mani. — Gesù! Devo essere l’unico uomo degli ultimi cinquantamila anni che abbia scoperto un nuovo tipo di peccato!
— E non è stato bello? — Io non mi mossi, non risposi. — Andiamo — disse lei, morbida, suadente — dire che è stato bello non ti farà del male. Perché lo è stato. E tu lo sai.
— Col cavolo.
— Oh, sì, è stato bello. Molto meglio che con comesichiama, Janice Lavapiatti, una che non ci sa proprio fare. — Marion restò zitta per un attimo. — Guardami , maledizione! Io non somiglio per niente a tua moglie!
Mi voltai, socchiusi gli occhi. Il viso era quello di Jan, e i capelli, le braccia, le mani e il corpo erano i suoi, però… c’erano una sfrontatezza negli occhi, una pienezza nelle labbra sorridenti, una tensione e un’eccitazione in ogni linea di quel corpo familiare, che io non avevo mai visto. C’era una certa somiglianza con Jan, ma, incredibilmente, nulla di più. Quella era un’altra donna: Marion Marsh, e nessun’altra, che adesso si chinava verso me, sorridendo, offrendosi. — Baciami, Nickie.
Io scossi la testa e mi girai di scatto.
— Perché?
— Per un motivo assolutamente ridicolo. Non voglio tradire mia moglie! — Fissavo, senza quasi vederli, gli alberi a lato dell’automobile, e tentavo di scacciare una tentazione (Gesù, quanto avrei voluto non avere bevuto quel gin) così intensa da mozzarmi il respiro. Desideravo con un’intensità incredibile. Chiusi gli occhi e cominciai a inspirare lentamente, ritmicamente. Raffreddai i miei pensieri, consapevole che al mio fianco c’era una ragazza che si offriva, che aspettava… E vinsi. Quando alla fine riaprii gli occhi, mi sentivo fisicamente debole.
Eseguii qualche altra inspirazione per calmarmi, poi mi voltai verso Marion per farle capire che doveva uscire dalla nostra vita. Ancora girata verso me, sorridente, lei non si mosse, e non disse nulla; restò ad aspettare mentre io andavo in cerca delle parole giuste. Era (ma come poteva esserlo? Com’era possibile?) voluttuosa; il più sensuale e totale concentrato di femminilità che io avessi mai visto. La femminilità brillava nei suoi occhi, trasudava da quel corpo familiare e completamente estraneo, riempiva l’aria. — Nickie — disse dolcemente — ti rendi conto che sotto questo vestito c’è una ragazza nuda? — E l’intensità dell’improvvisa delusione che provai, lo shock raggelante di sapere che avevo vinto, che avrei resistito, fu insopportabile. La abbrancai. La abbrancai, e lei abbrancò me, e lì, coi cavalli che ci guardavano e tutto il resto, fermo in automobile su una strada di campagna come uno studentello, col corpo di mia moglie fra le braccia, io tradii un’altra volta mia moglie. Gesù.
Superammo la villa dove, incredibilmente, il party era ancora in corso e raggiungemmo l’autostrada. Solo a quel punto mi sentii in grado di parlare. Udii la mia voce, solenne e un poco tremante per la serietà di ciò che avevo da dire. — Marion, ascoltami. Non devi mai, mai più farlo. — Ma lei non rispose, e nella luce verdastra di un lampione dell’autostrada vidi che dormiva.
Continuò a dormire sul ponte e mentre attraversavamo San Francisco, ma quando tirai il freno a mano aprì gli occhi al rumore, guardò la casa, poi me. — Ciao — disse.
Con la vista annebbiata dal gin che avevo bevuto, strizzando le palpebre, scrutai il suo volto. Eravamo quasi direttamente sotto il lampione davanti a casa. — Ciao, Jan.
— Ciao. — La sua mano si sollevò alla bocca, in un gesto da vera signora, a soffocare un rutto. Poi Jan appoggiò alla fronte il dorso della mano. — Nickie… Non mi sento molto bene.
Un po’ prima di mezzogiorno ero in cucina, in pigiama e pantofole, ad aspettare che le fette di pane saltassero fuori dal tostapane, cercando di ignorare il gorgoglio pulsante della caffettiera. Avevo un doposbornia coi fiocchi, e mi era d’aiuto restare assolutamente immobile mentre aspettavo, con le braccia penzoloni sui fianchi, a occhi chiusi. Quando il pane schizzò fuori dal tostapane mi fece sobbalzare. A quel punto dovetti spingermi all’altro lato della cucina; me la cavai camminando senza sollevare le suole delle pantofole dal linoleum. Tirare fuori i piatti non fu troppo difficile, ma i vassoi sono riposti nello stretto spazio tra forno e frigorifero, appoggiati di lato sul pavimento, e dovetti chinarmi. Lo feci con estrema lentezza, piegando soltanto le ginocchia, con gli occhi puntati in avanti. Individuai un vassoio al tatto.
Al grattò alla porta sul retro: avremmo dovuto lasciarlo entrare già da un pezzo, e lo sapeva. A occhi chiusi, lo informai che avevamo deciso di sbarazzarci di lui e prendere al suo posto una pianta. Forse mi credette, perché quando mi avviai verso il frigorifero lo sentii ridiscendere le scale.
Cercavo, con ansia disperata, il succo di pomodoro in mezzo ai cartoni del latte. Mi ero ricordato che vodka e succo di pomodoro dovrebbero essere il rimedio per quel tipo di malessere. Però non ce n’era; lo beviamo di rado. In compenso c’era una bella bottiglia gelata di champagne della California che Jan aveva comperato a una svendita di un negozio di liquori e che teneva da parte per il nostro anniversario. Era un’emergenza. Presi la bottiglia, tolsi il rivestimento di stagnola, ed estrassi il tappo, molto molto attento a non provocare rumore.
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