Il mio telefono squillò, e siccome stavo pensando a lei, era Jan: è così che vanno le cose, e lo sanno tutti. Dopo i saluti, lei disse: — Non dimenticare il party con gli Hurst, stasera.
— Sì, lo so. Me lo ricordavo. È una prospettiva piacevole.
— Anche per me. È da un po’ che non usciamo a divertirci.
Sorrisi e aprii un cassetto in basso, per appoggiare i piedi. — Non credo sia chic aspettare con tanta impazienza un cocktail party.
— Lo so. Soprattutto un party organizzato per raccogliere fondi. Nickie, ti ho chiamato perché Magnin sta pubblicizzando una svendita di vestiti in saldo. È una vera svendita, e io ho bisogno di un abito nuovo da sera. Qualcosa di semplice. Nero, suppongo. Un vestito che vada sempre. Però…
— Allora vallo a comperare.
— Be’, non sono sicura che possiamo permetterci…
— Quella che non possiamo permetterci è la roba da mangiare. Quindi comprati il vestito. Voglio sperimentare l’ondata di orgoglio che un uomo prova quando a un party tutti i maschi pizzicano il sedere a sua moglie.
— Ottimo. Il primo pizzicotto è tuo. Ci vediamo stasera.
Dopo il lavoro, sceso dall’autobus, tornai a casa a piedi, scrutando la città mentre salivo la collina di Buena Vista. Ero innamorato del mondo e di quel momento, il momento nel quale un bambino di quattro o cinque anni, accoccolato su un solo pattino, mi corse incontro senza nemmeno vedermi, concentrato com’era sul compito di non perdere l’equilibrio. Mi spostai di lato, felice del bambino e della serata che mi attendeva: mi piacciono i party di tutti i tipi, almeno come idea.
Sul portico mi fermai a riprendere fiato, ma solo per un istante o poco più, e salii i gradini della scala interna a due a due: dovevo cambiarmi, poi dovevamo attraversare in auto il Golden Gate Bridge e arrivare a Marin County. Sul pianerottolo strillai: — Sono a casa!
— E io sono qui! — rispose dal bagno la voce di Jan. Lei fece una pausa, poi aggiunse: — Ho paura di uscire.
— Come sarebbe a dire? — chiesi alla porta del bagno, passandole davanti. Entrai in camera da letto e slacciai la cravatta.
— Mi ucciderai.
— Be’, allora esci e facciamola finita. Ti lascio scegliere il metodo che preferisci. — Sbottonando la camicia, puntai gli occhi sulla porta del bagno, all’altro lato del corridoio. Si stava aprendo lentamente verso l’interno, con Jan nascosta dietro. Si spalancò quasi del tutto, e di colpo lei apparve in corridoio. Per metà sorrideva, per metà aveva dipinta in faccia una smorfia implorante. Restai di sasso. Il suo vestito nuovo era folle: una giostra di colori da dare il capogiro, come se qualcuno avesse spruzzato manciate di vernice sulla stoffa; ed era più corto di parecchi centimetri di qualunque cosa Jan avesse mai portato. Guardando meglio, mi resi conto che era un vestito preparato con molta maestria; le macchie di colore erano sistemate in modo armonico e ben proporzionato. Però era un pugno nell’occhio, e dissi: — Ma che diavolo? — Non volevo Jan pensasse che io disapprovavo il vestito che, dopo tutto, doveva portare al party di quella sera, così aggiunsi subito: — È splendido. — E lo era sul serio , mi resi conto. — Credimi, giuro — dissi, e lei sorrise alla sincerità della mia voce. — Mi piace un sacco. Gambe come le tue devono essere messe in mostra. — Per un’incredibile frazione di secondo, mi trovai a paragonare le gambe di Jan con quelle di Marion Marsh, e scacciai quel pensiero idiota. — Sei meravigliosa. Forse dovrò passare la serata a salvarti dalle aggressioni sessuali. Fra parentesi, se avessimo tempo…
— Non lo abbiamo.
— Peccato. Che fine ha fatto il vestitino nero?
— Non so — rispose lei, fingendo un gemito di dolore, ed entrò in camera da letto e si mise a studiare l’abito. — Volevo comperare una cosa tranquilla, poi ho visto questo, l’ho provato così per ridere, e… — Girò la testa, sorrise, scrollò le spalle. — Non so cosa mi abbia preso, ma l’ho comperato. Ti piace sul serio? No, non ti piace per niente.
— Sì, sul serio. — Mi stavo mettendo una camicia nuova. — Però tutte le altre donne saranno invisibili. Ti linceranno. Hai dato da mangiare ad Al?
— Sì. Ha insistito.
Nel tragitto verso il ponte, con la capote abbassata, raccontai a Jan quello che era successo la sera prima, con molta calma ma senza trascurare il minimo dettaglio. Volevo farmi capire bene. Lei ascoltò, poi ne parlammo. Jan aveva diverse domande, e io risposi a tutte. E lei disse che le sarebbe piaciuto essere stata con me. Capii che mi credeva; cioè sapeva che non stavo mentendo, che ero convinto di averle raccontato la verità. Ma che fosse successo davvero, o fosse stata solo un’illusione… Chi può dire che certe cose siano reali, se non le ha vissute?
La città di Ross è vecchia, in base agli standard della California, ed è ricca. Ospita tanta gente con tanti soldi da avere tanto potere da mantenerla vecchia. Ci sono ancora strade troppo strette per il traffico moderno; alcune sono soltanto viali col fondo ghiaioso che non sono cambiati di un millimetro da quando i cavalli trainavano carretti, e vengono conservate in quello stato. Ci sono pochissimi parchimetri, non molti cartelli stradali o lampioni, una considerevole assenza di numeri civici; e nel cuore della città si trovano acri di terreno coperto d’alberi, di proprietà dell’Alt and Garden Club, acri che si potrebbero riempire di condominii con notevole profitto economico, ma rimangono intatti. Su alcuni dei viali col fondo in ghiaia sorgono enormi ville che hanno cinquanta, sessanta, settanta, ottanta o più anni. Sono ben conservate e regolarmente ridipinte; sono molto distanziate fra loro e lontane dalla strada, protette da alte siepi o file di alberi, su appezzamenti ricchissimi di verde; sia le case che l’ambiente circostante hanno lo stesso identico aspetto da decenni. Vivrei in una di quelle case, se me la potessi permettere, e fu un piacere scoprire che il party si teneva in una di quelle ville.
Coperta da assicelle in legno splendidamente ingrigite dagli anni, a due piani ma talmente larga da sembrare bassa, sorgeva ad abbondante distanza dalla strada, al termine di un lungo sentiero d’accesso bianco delimitato da alberi. Le auto erano parcheggiate su entrambi i lati del sentiero. Aggiunsi la Packard a una delle file e ci incamminammo verso la casa. Sentivo giungere una musica smorzata dall’interno, ed ero molto eccitato. Chiesi: — A quale causa è consacrato questo party? Per usare un’espressione un po’ forbita.
— È per un asilo nido. Per bambini con madri che lavorano. Un’istituzione interrazziale. Hazel è nel comitato direttivo.
— Benissimo. Il che significa che più ci si sbronza, più si migliorano i rapporti fra le razze. Il che alleggerisce notevolmente la coscienza. Se non finisci ubriaco marcio, sei un maledetto bigotto.
Ci stavamo avvicinando ai gradini in legno di un portico vecchio stile che correva lungo tutta la facciata della casa, e su entrambi i lati. Adesso sentivo benissimo la musica: roba da pianobar. Salimmo i gradini, ci spostammo su un lato del portico, con una gigantesca doppia porta spalancata, e cominciammo a udire il ronzio robusto della conversazione fra parecchie persone. Poi approdammo a un ingresso col pavimento in cotto rosso, e per un attimo restammo a guardare la stanza oltre l’ingresso, e io capii come mai il party si tenesse proprio lì.
Era una stanza immensa, quindici o più metri in ogni direzione orizzontale, con un soffitto alto due piani e lucernari che si potevano aprire grazie ai. meccanismi a ruote e catene disposti sulle pareti. Doveva essere stata pensata come sala da ballo, perché direttamente di fronte all’ingresso c’era una piattaforma fissa, abbastanza grande da ospitare un’intera orchestra, anche se al momento c’era solo un pianoforte: un piano a coda che dominava l’intero salone, suonato da un uomo coi capelli grigi, in smoking grigio con decorazioni in argento. A occhi socchiusi, ondeggiava a tempo con la sua musica lenta, liquida, e aveva sulle labbra un sorriso professionale. Al momento, si stava esibendo in The Way You Look Tonight. Nella stanza c’erano cento o più persone. Chiacchieravano e sorridevano a gruppetti, o si aggiravano a passi lenti tra la folla, o sedevano lungo le pareti su innumerevoli sedie e grandi, vecchi divani imbottiti di velluto, blu sbiadito o marrone. Poi scorgemmo gli Hurst, Hazel e Frank. Si stavano facendo strada verso noi, sorridenti, e noi andammo loro incontro nell’enorme salone.
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