Venimmo presentati a un gruppo di amici degli Hurst e restammo a fare capannello con loro per qualche minuto. Io scrutai le donne che archiviavano nelle banche della memoria i dettagli completi del vestito di Jan. Una di loro cominciò a parlarci dell’asilo nido, e dopo un po’ a me si appannò lo sguardo. Poi altre due coppie, che conoscevano quasi tutti gli altri, si unirono al nostro circolo, e nel caos dei saluti e delle battute io sfiorai il braccio di Jan. — Andiamo a versare l’obolo per le madri che lavorano.
Avevo visto il bar a un’estremità della stanza, tavolini pieghevoli coperti di tovaglie accostati l’uno all’altro. Dietro, a ridosso della parete, c’era una seconda fila di tavoli, il bar vero e proprio. Quando lo raggiungemmo, tre baristi in giacca rossa stavano servendo sette o otto persone. All’ultimo tavolino, una signora dai capelli grigi, sorridente e molto distinta, sedeva su un seggiolino pieghevole; aveva davanti a sé un mazzo di biglietti e una scatola di metallo nero. Pagai per due biglietti, ognuno dei quali valido, mi informò la signora con voce raffinata. — Per qualunque tipo di drink, dal vino bianco al Martini. — La ringraziai, notai, che anche la mia voce si sforzava di sembrare raffinata, poi mi girai verso Jan per chiederle cosa volesse.
Restai perplesso dalla sua espressione: fissava il bar a bocca socchiusa. I tavoli erano coperti di bottiglie, in enorme quantità, in parte già aperte, in parte ancora chiuse. C’erano whisky di ogni tipo e di molte marche; decine di bottiglie di gin e vodka; c’erano vino e sherry; file di Coca, 7 Up, gazzosa, altre bevande gasate; sul pavimento, sotto il tavolo, erano accatastate casse di liquore e vino. Uno spettacolo imponente, però… Di tanto in tanto, per eccitazione ed esuberanza, Jan, come talora succede ai timidi, si ficca in testa di mettersi a fare il pagliaccio, e di solito sceglie quello che a me sembra il momento sbagliato. Pensai fosse in uno di quegli stati d’animo, e cercai di tirarle una gomitata per farla smettere subito, ma era troppo tardi. Jan fece un sorrisone al barista in attesa, che la fissava a sopracciglia alte, e gli disse: — Wow! Ma guarda tutto quel ben di Dio! È roba buona?
— E dai, Jan — borbottai. — Cosa vuoi?
— Be’, tanto per mettere in moto le cose, prenderò un cocktail Bronx.
Il barista corrugò la fronte. Un tizio a qualche tavolo di distanza ci stava fissando.
Io ripresi a borbottare. — Non credo servano cocktail complicati a un party del genere. Richiedono troppo tempo.
— Okay. Siamo qui per fare i bravi. Allora un gin buck. — Jan fissò il barista, poi scosse la testa, esterrefatta. — Non sai cos’è? Ma dove vivi? È solo gin, ginger ale, e succo di limetta. Mettici molto gin, e lascia pure perdere la limetta. È l’alcol che conta!
— Oh, per amor di Dio — dissi a denti stretti, e mi girai a ricambiare gli sguardi acidi della gente attorno a noi. Il barista diede il drink a Jan, quasi impassibile, anche se mi lasciò intravedere un sogghigno sepolto in fondo agli occhi. Io dissi: — Bourbon e soda — e misi sul tavolo i miei due biglietti. Restai a guardare il barista, che preparò il mio drink abbastanza in fretta. Presi il bicchiere, lieto di potermi voltare. Jan era a metà stanza; stava tornando verso gli Hurst. Poi la vidi fermarsi con un gruppetto di persone, rovesciare la testa all’indietro, e tracannare il liquore come un lupo di mare assetato. A quel punto, si girò e tornò verso me.
— Fallo un’altra volta, ragazzone! — disse, porgendomi il bicchiere vuoto. — È roba forte. Fresca fresca dalla fabbrica!
— Piccola, stai facendo un casino del diavolo, credimi — le dissi. — Lo so che ultimamente siamo usciti poco, ma cerca di cambiare musica, eh? Prima di tornare dagli Hurst e dai loro amici. Aspettami là. Ti porto il tuo drink. — Mi costrinsi a sorriderle, e mi riavvicinai al bar. Porca miseria, era una serata che aspettavo da tanto tempo!
C’era un bar a ogni estremità della stanza, scopersi. Mentre ripartivo verso gli Hurst, vidi Jan e Frank Hurst lasciare il gruppo e dirigersi al lato opposto della stanza; poi vidi il secondo bar. Dopo essermi fatto strada in mezzo alla folla, con varie acrobazie per non rovesciare né il bicchiere di Jan né il mio, lei e Frank stavano tornando. Jan sorseggiava un nuovo drink. Ci raggiunse, rossa in viso, con gli occhi che brillavano. Finì il drink, poi mi passò il bicchiere vuoto, prese quello che le avevo portato io, e si scolò metà cocktail. Un paio di donne la stavano guardando, continuavano a studiare il suo vestito. Jan le fissò con aria insolente finché loro non distolsero lo sguardo. All’improvviso, Jan diede una sventagliata con un fianco e cominciò a schioccare le dita della mano libera. — Questo party sta schiattando — disse. — Diamogli un po’ di movimento! — Si scolò tutto il drink e, senza guardarmi, mi tese il bicchiere. Fui costretto a prenderlo (a quel punto stavo maneggiando tre bicchieri), e Jan lasciò di nuovo il gruppo.
Ero arrabbiato con Jan come mai in vita mia, credo. Mi sforzai di lasciare stampato sulle labbra un sorriso e restai lì, coi due bicchieri vuoti nelle mani abbassate sui fianchi. Speravo che non si notassero troppo. Ascoltai con estrema attenzione una delle donne, che stava parlando della necessità di maggiore spazio e più attrezzature per l’asilo nido. Mi rifiutai di voltarmi per vedere dove stesse andando Jan; sapevo che non aveva soldi.
La donna finì di parlare, qualcuno le rispose, e io bevvi un sorso o due dal mio bicchiere, spostandomi un poco con la massima cautela per lanciare un’occhiata di soppiatto a Jan. Rimasi completamente esterrefatto: era al bar, sorrideva, e stava accettando un drink da un uomo che per lei era un perfetto sconosciuto, ne ero certo. Lui fece un mezzo inchino e agitò una mano in risposta ai ringraziamenti di Jan. Mia moglie alzò il bicchiere in un brindisi, bevve un terzo del liquore, poi si rituffò nella folla: non per tornare al nostro gruppo, come pensai in un primo momento, ma per dirigersi all’altro lato della stanza. Riuscii a seguire per qualche passo il suo vestito, poi scomparve nella marea umana.
Non sapevo che fare. Proprio non lo sapevo. Non potevo creare una situazione imbarazzante per lei o per me andandola a cercare in mezzo alla folla, anche se avrei voluto. Con uno sforzo, restai dov’ero e finii il mio drink. Poi sorrisi a Hazel Hurst, al mio fianco, gesticolai col bicchiere vuoto e chiesi: — Posso portarti un rifornimento, Hazel? — Sapevo che beveva pochissimo, e quando mi rispose di no sorrisi un’altra volta, girai sui tacchi e mi avviai verso il bar, a passo lento e indifferente. Continuai a guardarmi attorno e a cercare di proiettare l’immagine dell’uomo che si sta divertendo. Pensavo che se me la fossi presa calma, forse sarei riuscito ad acchiappare Jan al bar e a trascinarla fuori di lì, in un modo o nell’altro.
A metà strada dal bar, sentii il pianoforte interrompere bruscamente un medley di motivi da musical. Udii un leggero aumento nel livello del ronzio delle conversazioni, vidi teste girarsi verso la piattaforma. Mi voltai anch’io, senza sapere cosa avrei visto; ma quando vidi, mi parve di averlo saputo da una vita. Sulla piattaforma, il pianista sorrideva cortese, a testa china sui tasti, e ascoltava una donna che gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio. Fra lei e me c’era la massa del pianoforte, e la testa della donna era parzialmente nascosta da quella del pianista. Non la vedevo, però sapevo. Poi, con un sorriso gigante, Jan rialzò la testa sulla piattaforma. Il suo vestito era l’oggetto più vivace dell’intera sala. Quando il pianista attaccò a suonare quella che doveva essere la sua richiesta, lei balzò a sedere sul pianoforte, sventolando le gambe, e si mise a cantare col pianista Bye Bye Blackbird. Cantava le parole quando le conosceva, e sostituiva quelle che non ricordava con da-da, DA-da.
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