Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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La voce era morbida. — Vuoi rivedermi ancora una volta, eh, Nickie? Sei dolce. Se solo non avessimo litigato! Tutto sarebbe potuto essere così diverso. Va bene. Guarda nell’angolo verso l’ingresso, dall’altra parte delle finestre.

Guardai, e quello che vidi fu un convergere, un raccogliersi di luce dal resto della stanza. Alla periferia della mia visuale, gli angoli del soggiorno e il bianco del soffitto divennero palesemente più scuri; poi svanirono nell’oscurità totale. La luce si riversò sul pavimento. Poi corse veloce lungo il battiscopa, come in un piccolo banco di nebbia; si concentrò e cominciò a sollevarsi nell’angolo buio al lato opposto della stanza, dapprima grigia come nebbia, poi soffusa di un fioco chiarore, iridescente. All’improvviso, un’esplosione di colori che fluirono l’uno sull’altro, si separarono, assunsero consistenza, si fissarono in forme ben definite. E poi apparve lei, sorridente.

La figura era trasparente. La parete era chiaramente visibile dietro lei. Però Marion era perfettamente nitida e chiara. Indossava un vestito blu e verde; l’orlo della gonna arrivava alle ginocchia di (rimasi stupefatto di me stesso per essermene reso conto) un paio di gambe meravigliose. L’incarnato era di un delizioso colore tra rosa e bianco, e, sorprendentemente, i capelli che nel film non sembravano biondi erano invece gialli. Mi guardava, abbassando di tanto in tanto le palpebre degli occhi azzurri; non era bella, ma molto carina, e trasmetteva la sorprendente sensazione di vitalità che comunicava anche nel film. Con una voce molto più fioca, disse: — Non sei cambiato, Nick. O almeno, solo pochissimo. Sei un po’ più vecchio. Adesso sei più vecchio di me! E sei sposato, vero? La ragazza di prima era tua moglie. Tutti e due qui nel mio vecchio appartamento.

Stavo aprendo la bocca per risponderle, per dirle chi realmente fossi. Ma le sue ultime parole erano scese quasi a livello di impercettibilità, e i colori e l’intera immagine stavano rapidamente perdendo consistenza. Era quasi scomparsa, solo vagamente visibile, quando sollevò un poco la testa. Per la prima volta, parve accorgersi della scritta che copriva la parete dietro il divano, e la perdita di consistenza si interruppe. Forma e colori ripresero una certa sostanza, la conservarono grazie a quello che doveva essere uno sforzo di volontà. Vidi la sua mano salire al petto, vidi gli occhi sgranarsi e il volto piegarsi in una smorfia. Poi la sentii esclamare, a voce molto bassa: — Essere stata viva! — Le vestigia di colori e forma svanirono, e io vidi di nuovo gli angoli della stanza, il chiarore bianco del soffitto. Sussurrai: — Marion? — Ma non mi aspettavo una risposta, e non la ebbi.

Andai alle finestre. Guardai la città, la lunga linea di luci arancio che erano l’unica cosa visibile del Bay Bridge. Pensavo di voler restare lì a riflettere su ciò che era appena accaduto, ma la mia mente era vuota, si rifiutava di pensare; in quel momento, mi sentivo sopraffatto. Dopo qualche momento, con un’occhiata alla parete di Marion mentre passavo, uscii in corridoio e andai in camera da letto.

A letto, Jan era rivolta verso me. Le sfiorai le labbra nel solito bacio della buonanotte, un contatto lieve per non svegliarla. Ma lei era sveglia, almeno parzialmente; si avvicinò a me, e io la presi fra le braccia. Chiusi gli occhi, esausto, contento di poter dormire. Ma l’abbraccio di Jan si fece più intimo, mi attirò al suo corpo, e io sorrisi, sorpreso: quando Jan si addormentava, strapparla al sonno prima del mattino era difficile come svegliare un bambino. Credevo di essere esausto, ma Jan mi lasciò stupefatto, e scopersi di non essere affatto esausto. Ma quando ci coricammo di nuovo fianco a fianco, col mio braccio attorno alla vita di Jan, mi sentii precipitare nel sonno come stessi correndo su una pista per toboga, e ne fui lieto: ciò che era accaduto in soggiorno richiedeva una mole di riflessioni al momento del tutto impossibili. E mi sentivo anche felice, più di quanto fossi da parecchio tempo. Ultimamente, le cose fra Jan e me non erano andate bene come avrebbero dovuto, e non sapevo perché. Niente di serio, però non riuscivamo a trovare un rimedio, e ovviamente problemi del genere te li porti anche a letto. Ma quella sera la tensione fra noi era sparita, di colpo; realmente sparita. Mi sentivo felice e, per quanto insonnolito, quasi esuberante. Che serata straordinaria , pensai, sorridendo nel buio; poi, wham!, caddi addormentato.

3

Il mio ufficio è semplicemente un ufficio, non piccolo ma tutt’altro che grande. Ho un tappeto di un bel verde foresta, una scrivania e una poltroncina decenti, una sedia per i visitatori, un tavolo sul quale mettere le cose. E alla parete ho appeso un paio di articoli personali. Uno è una stampa di Brueghel intitolata La torre di Babele , che mi piace guardare perché è piena zeppa di persone piccole piccole impegnate a fare un’infinità di cose per costruire una torre che arriva fino alle nuvole. Mi ricorda le copertine di Boy’s Life di quando ero ragazzo, piene di ragazzi che nuotano, corrono, giocano a calcio, si arrampicano sugli alberi.

Mille cose. Potevi studiare a ripetizione una di quelle copertine, convinto di avere finalmente visto tutto, ma di solito trovavi sempre qualcosa che ti era sfuggita. Be’, io penso che la stampa di Brueghel sia proprio all’altezza delle vecchie copertine di Boy’s Life , e quando sono annoiato mi alzo, mi ci metto davanti, e cerco qualcosa di nuovo. L’altro articolo personale è una fotografia di Fay Wray in costume da giungla; una foto che mi piace moltissimo.

Il giorno dopo avere visto lo spettro di Marion, sedevo nel mio ufficio con la matita in mano, la punta rivolta verso il basso, apparentemente intento a studiare le carte sulla mia scrivania. Lavoro alla Promozione Vendite. Ho a che fare con le mie controparti dell’agenzia pubblicitaria; ogni tanto partecipo a qualche convegno o riunione sulla Costa Ovest, il che è un dubbio beneficio, ma se non altro mi permette di cambiare ambiente; e faccio una notevole varietà di cose legate alla vendita dei nostri articoli, prodotti cartacei di così tanti tipi che un uomo sano di mente non riuscirebbe mai a immaginarli tutti. Parecchia della roba che produciamo è effettivamente utile, e non sforniamo nulla di pericoloso, quindi per lo meno non mi vergogno di quello che faccio.

Ma in quel momento non stavo facendo niente. Avevo per la mente cose più importanti dei tovaglioli di carta. Per tutto il mattino, da che avevo aperto gli occhi, avevo fatto del mio meglio per pensare a ciò che era successo la sera prima, qualunque cosa fosse successa. A mezzogiorno mandai giù un boccone in fretta per avere il tempo di camminare (prima fino al Ferry Building all’inizio di Market Street, poi tra i moli coperti, con la Baia che a tratti appariva fra un molo e l’altro) e pensare ancora un po’, cercando di raggiungere qualche conclusione.

Ma non mi pareva di poter concludere molto. Più che altro, rivissi mentalmente l’esperienza, diverse volte. A titolo sperimentale, tentai di convincermi di avere solo immaginato, o sognato in maniera molto vivida, ciò che era successo, ma la differenza tra il sogno o l’immaginazione e la realtà la conoscono tutti: era successo davvero. Di ritorno alla mia scrivania, l’unica conclusione alla quale giunsi fu che in rare occasioni gli spettri appaiono sul serio.

Non lo avevo raccontato a nessuno, ovviamente, e non intendevo farlo; lo avrei detto solo a Jan. Non appena sceso dall’ascensore nell’atmosfera tanto concreta, tutta luci fluorescenti, macchine per scrivere elettriche e aria condizionata, della Crown Zellerbach, capii subito che non avrei cercato di convincere qualcuno di ciò che era accaduto la sera prima nel buio della nostra vecchia casa. E a colazione non ne parlai con Jan; avrei dovuto ripetermi, parlare e parlare, e non c’era tempo. Glielo avrei raccontato quella sera, e… Una storia fantastica. Sorrisi all’idea, ansioso di dirglielo. E ansioso, mi resi conto, di rivedere Jan. Ricordando il dopofilm della sera prima, quel giorno provavo molto calore e tenerezza per Jan, apprezzavo le sue buone qualità, mi facevano piacere persino i suoi difetti.

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