Jack Finney - Un mondo di ombre

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Un mondo di ombre: краткое содержание, описание и аннотация

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Può ritornare il passato? E una donna può attraversare lo schermo invisibile che separa il suo tempo dal nostro? Nell’anno del centenario del cinema, questo affascinante romanzo di Finney costituisce l’omaggio di URANIA (e della fantascienza in generale) al mondo della settima arte. Un mondo di sguardi allucinati, di visioni terrificanti e sogni impossibili; un mondo di mostri e magie che diventano sotto i nostri occhi tangibili e vivi. Come gli spettri di Marion, come le ombre della nera villa adagiata in collina di questo romanzo, come il mondo del passato — anzi, il mondo senza tempo che s’infiltra nel nostro lasciando una traccia enigmatica e indelebile.

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Distolse gli occhi dagli uomini che aveva attorno, scrutò la stanza. E l’ombra di noia che apparve sul suo viso in quel momento, e che svanì non appena lei si girò di nuovo verso il gruppo, era genuina. Guardandola riprendere la conversazione, mi parve di capire i veri sentimenti della donna che interpretava; in seguito ricordai l’intera scena come se avessi udito la sua voce. E in quell’attimo mi sembrò addirittura credibile che le caricature attorno a lei, gli uomini che quasi saltavano nell’esagerata enfasi dell’attenzione per Marion, provassero davvero ciò che stavano recitando. La macchina da presa si mosse, l’immagine di Marion rimpicciolì, la scena svanì sullo sfondo, e io mi protesi in avanti per cogliere le ultime immagini di lei. E quando Marion scomparve del tutto dall’inquadratura, io restai sotto l’incantesimo della sua presenza, con la netta sensazione che lei stesse ancora sorridendo e parlando fuori campo.

Quell’impressione durò per un lungo momento, nell’interminabile musica del pianoforte, con i fotogrammi che continuavano a scorrere senza più avere il minimo significato per me. Poi uscii dalla trance e guardai Jan. — Ragazzi — mormorai. — Aveva la scintilla. L’aveva sul serio.

Sì… Oh, potrei mettermi a piangere! Nick, sarebbe diventata una star ! Il suo nome ci sarebbe stato noto come…

— Lo so. Come quelli di Norma Talmadge o Clara Bow. Non c’è il minimo dubbio.

— Be’, è un peccato! Pensa a come deve essersi sentito tuo padre guardando il film.

— Gli è passata da un bel pezzo, ne sono certo.

Restammo davanti al televisore per qualche altro minuto, poi Jan disse: — Non credo di poter resistere ancora mezz’ora, Nick. Sono quasi le dieci e mezzo, e sono stanca. Ma sono così contenta di averlo visto. — Si girò a guardare le parole di Marion sulla parete alle nostre spalle.

— Si vede ancora. Alla fine.

— Solo per un secondo, o così ha detto tuo padre, e io sono troppo stanca. Oggi ho fatto le pulizie di casa. Tu guarda pure, se vuoi. Io vado a letto e continuerò a pensare a lei finché non mi addormenterò.

— Okay. Prima “biscotta” fuori il vecchio, ti spiace? — Non ricordo come fosse iniziata la cosa, ma alla sera, anziché ricorrere ai metodi bruti e semplicemente ordinare ad Al di uscire, gli passavamo un biscotto sul naso. La sua lingua guizzava automaticamente fuori dalla bocca e dava una ripassata al naso. Lui mandava giù le briciole di biscotto, sgranava gli occhi, si alzava con scatto atletico, trotterellava in cucina e usciva dalla porticina tutta per lui che avevo installato alla base della porta. Quando era in cortile, gli davamo il biscotto e lo chiudevamo fuori. Veloce, semplice; niente discussioni e tutti contenti, almeno finché Al non aveva divorato il biscotto.

Jan mi diede un bacio sulla guancia, biscottò fuori Al, e io restai a guardare il film fino in fondo, per un’altra trentina di minuti, rovesciato sul divano, mezzo sveglio e mezzo addormentato. Negli ultimi istanti di Ragazze focose , una sposa, Blanche Purvell, lanciava il bouquet a un gruppo di damigelle d’onore ai piedi della scalinata, e Marion Marsh si intravedeva per qualche altro attimo. In effetti, faceva esattamente le stesse identiche cose di tutte le altre damigelle, e la si vedeva per non più di quattro secondi, prima che il suo viso venisse nascosto da un braccio che si sollevava. Ma mi aveva catturato; si era fatta un fan. E, annuendo, dissi a me stesso che anche in quella scena così breve lei spiccava fra le altre. Fine , disse il sottotitolo sullo schermo. La musica di pianoforte svanì mentre io mi alzavo per andare a spegnere il televisore, prima che il tizio col cravattino tornasse a spiegarci cosa avevamo visto. — Be’, Marion — dissi, mormorando nel silenzio appena nato — eri grande. Assolutamente grande.

— Sì.

La luce del televisore si stava riducendo alle dimensioni di un minuscolo diamante. Io rimasi immobile, col sangue che defluiva dalla superficie della mia pelle. Misi al lavoro il cervello, in cerca di alternative. Ma non ce n’erano. Non potevo negare l’inconfondibile differenza tra una cosa semplicemente immaginata e una cosa reale. Sapevo di avere veramente sentito quell’unica parola, pronunciata con perfetta chiarezza, da una voce femminile piacevolmente rauca che non era quella di Jan. L’idea di muovermi non mi andava a genio, però mi mossi; girai la testa a scrutare l’intera stanza, nella fioca luce che entrava dalle finestre. Una trave del soffitto emise un crepitio legnoso, contraendosi dopo il caldo della giornata; ma sapevo di cosa si trattava, c’ero abituato, e continuai a frugare la stanza con gli occhi.

Il buio non era sufficiente per permettere a qualcuno di nascondersi, e non si vedeva nessuno. Lo sapevo già; sapevo più di quanto volessi permettermi di ammettere; e i capelli sulla nuca e i peli sulle mie braccia erano diritti, elettrici.

— Nick, sono io.

— Chi?

Marion — rispose la voce, spazientita.

— Marion… — Mi costò un notevole sforzo dirlo. — Marsh?

— Naturalmente! Dovevo vedere il mio film. Dio , non ero brava?

Annuii, poi mi venne in mente che magari lei non poteva vedermi, e dissi: — Sì — ma mi si spezzò la voce. Mi schiarii la gola, ritentai, e questa volta la voce era troppo alta. — Sì, eri brava! — dissi. — Sei un… — E di nuovo mi fu difficile pronunciare quella parola. Era troppo ridicola. — Un fantasma?

Ci fu un lungo silenzio. Forse non avrei più udito altro. Poi, perplessa e leggermente divertita, colma di meraviglia come se l’idea fosse del tutto nuova, la voce disse: — Suppongo di sì. — Una risata. — Ma pensa tu! Però sì, immagino che debba essere un fantasma. Possiamo tornare nei posti dove abbiamo vissuto, sai, anche se sono in pochi a farlo. Richiede tanta… Tu come la chiameresti?

— Energia metapsichica? — Ero talmente affascinato che mi ero scordato di avere paura. Anzi, ero eccitatissimo. Immaginavo già di raccontarlo a Jan, ai colleghi in ufficio, ai party.

— Sì, qualcosa del genere, suppongo. Bisogna proprio avere voglia di tornare. E io l’avevo, credimi! Il mio film, e non lo avevo mai visto! Finalmente proiettato qui in casa mia! Cos’è quell’affare?

— Un televisore.

— Serve a vedere i film?

— Sì. Soprattutto a quello.

— Però non è il massimo, eh? Così piccolo. Ma che differenza fa? Finalmente ho visto il mio film! Sono rimasta tagliata fuori, ricordi?, a soli vent’anni.

— Ventuno, no? — Non mi ero più mosso; non mi era venuto in mente di farlo.

— Oh, chi se ne frega? Perché è tanto importante? A te è sempre piaciuto sottolineare che eri un po’ più giovane di me.

Non vedevo l’utilità di correggerla. Dissi: — Senti, com’è? Dall’altra… — Odio frasi del genere, ma non mi veniva in mente nessun surrogato. — Dall’altra parte?

— Oh… — La voce fece una pausa. — Un po’ come essere sbronzi. Ci si sente piuttosto bene e non si pensa molto. Com’è essere vivi? Io l’ho quasi dimenticato.

— Il contrario, grosso modo. Marion, senti, potresti apparire? Come realmente eri. Come sei. Come eri.

— Oh, Nickie, è fantasticamente difficile. Anche solo per un secondo o due. Dev’essere per questo che i fantasmi spariscono così in fretta, non credi? L’unico mezzo per poter restare in circolazione per un po’ di tempo è la possessione.

— Cioè?

— Entrare in qualcuno. Si può fare solo per un motivo terribilmente importante.

— Però tu puoi apparire per qualche secondo. Lo vuoi fare? Ti prego. — Alla fine, mi venne in mente che potevo anche sedermi, e così mi buttai sull’orlo del divano.

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