Troy non poté cogliere lo scambio fra Carol e Nick. Quando si girò per tornare a sedere dopo l’applauso finale, fu perciò sorpreso di vedere le spalle di Nick irrigidite nella posa manifesta dell’ostilità. «Non è stata stupenda, angelo?» disse a Carol. «E tu che ne dici, professore? È la prima volta che la senti cantare?»
Nick assentì. «È stata grande» disse quasi controvoglia. «E io ho sete. È possibile avere da bere, in questo posto?»
Troy fu leggermente offeso. «Be’, scusa tanto» disse. «Spiacente che lo spettacolo sia stato tanto lungo.» Poi, mentre gesticolava nel tentativo di richiamare l’attenzione di un cameriere, disse a Carol in tono conversevole: «Cos’è che gli ha preso, angelo?».
Carol rispose con una stretta di spalle. Poi, nel tentativo di rasserenare l’atmosfera, si chinò verso Nick e gli batté leggermente sull’avambraccio posato sul tavolo, dicendo: «Ehi, Nick, t’ha morso un cane rabbioso?».
Nick ritrasse di scatto il braccio mormorando qualcosa d’incomprensibile, e si estraniò dalla conversazione. Quando vide Angie avvicinarsi al tavolo, si alzò automaticamente, imitato da Carol e Troy. «È stata fantastica» disse Carol, un po’ troppo forte, non appena Angie fu a portata di voce.
«Grazie… Salve» rispose Angie, prendendo la sedia che Troy le aveva scostata. Qualche istante per ringraziare garbatamente degli elogi i clienti dei tavoli circostanti, poi sedette con un sorriso. «Lei dev’essere Carol Dawson» disse con fare naturale, chinandosi verso la giornalista.
Angie era anche più bella di quanto non apparisse nella foto di copertina del disco. Aveva una pella marrone-scuro, non nera. Il trucco, compreso il rossetto rosa-pallido, era ridotto al minimo, così da far risaltare meglio le sue grazie naturali, fra cui era una dentatura perfetta, che il sorriso rivelava di un bianco smagliante. Dietro la bellezza c’era anche la donna: una donna che irradiava un calore naturale cui nessuna fotografia poteva render giustizia, e che attraeva immediata simpatia.
«E lei dev’essere Nick Williams» continuò Angie, porgendo la mano a Nick, che stava ancora in piedi, l’aria incerta e a disagio, quando Troy s’era ormai seduto. «In questi ultimi giorni Troy mi ha tanto parlato di lei, che mi pare di essere già sua amica. A sentir lui, lei avrebbe letto ogni romanzo degno di lettura che sia mai stato scritto.»
«È un’esagerazione bella e buona, s’intende» disse Nick, manifestamente lieto di essere stato riconosciuto e sembrando sciogliersi un po’. Sedutosi, fece per aggiungere ancora qualcosa, quando Carol intervenne a togliergli la parola di bocca.
«Quella bella canzone sul cieco, l’ha scritta lei personalmente?» chiese, senza dar tempo ad Angie di sistemarsi. «Mi è sembrata una confessione personale, in effetti.»
«Sì» rispose garbatamente Angie, senza mostrare la minima irritazione per l’assalto di Carol. «Il grosso del mio materiale proviene da altre fonti, ma ogni tanto scrivo anch’io qualche canzone. Quando mi capita un soggetto che mi sta a cuore.» Un breve sorriso a Troy, e continuò: «Mio padre è un uomo straordinario, affettuoso, cieco dalla nascita ma dotato di un’incredibile comprensione del mondo a ogni livello. Senza la sua pazienza e la sua guida, non avrei probabilmente avuto mai il coraggio di cantare fin da piccola, perché ero troppo timida e impacciata. Ma lui ci persuase tutti quanti, fin da piccini, di essere, per un verso o per l’altro, qualcosa di speciale. Ci diceva che Dio aveva dato a ognuno di noi qualcosa di insolito, di unicamente nostro, e che una delle grandi gioie della vita era la scoperta e lo sviluppo di questa dote speciale».
«È quella Let Me Take Care of You, Baby , l’ha scritta veramente per Troy?» intervenne Nick senza lasciarla finire, distruggendo così la tenera atmosfera creata da Angie con l’affettuosa descrizione del padre. Troy, vedendolo seduto in punta di sedia, e così agitato e turbato, si domandò di nuovo che cosa mai fosse successo in quello scambio con Carol per metterlo in un tale stato di tensione.
«Credo proprio di sì» rispose Angie, guardando Troy con un sorriso di tristezza. «Anche se, in origine, avrebbe dovuto essere un motivo scherzoso, una specie di brioso commento al gioco dell’amore.» Tacque per un istante. «Però parla di un problema reale. A volte è duro essere una donna di successo, perché interferisce…»
«Amen, amen» interruppe Carol, senza lasciarle il tempo di sviluppare il proprio pensiero perché questo era uno dei suoi argomenti preferiti e che lei non perdeva occasione per ribadire. «La maggior parte degli uomini non sopporta che una donna abbia un successo anche minimo, figurarsi uno come il suo!» Poi, fissando apertamente Nick, continuò: «Ancora oggi, nel 1994, vigono regole non scritte che vanno seguite. Se una vuole una relazione permanente con un uomo, deve tener conto di tre non: Non dargli l’impressione di esser più brava di lui, non esser la prima a prendere l’iniziativa sessuale, e, soprattutto, non far più soldi di lui. Queste sono infatti le tre aree-chiave della fragilità dell’ego maschile. E se una donna mina l’ego di un uomo, magari anche solo scherzando, con quello ha chiuso».
«Sembri proprio un’esperta» replicò, sarcastico, Nick. Poi, con ostilità manifesta: «Io mi domando se a qualcuna di voi, femmine liberate, sia mai passato per il cervello che non è il vostro successo a respingere gli uomini, bensì il modo con cui lo gestite. La vostra riuscita nella vita non significa un cazzo sul piano personale. La maggioranza delle donne ambiziose e aggressive da me conosciute,» continuò, guardando apertamente Carol «sono tipe che fanno di tutto per trasformare i rapporti maschio-femmina in una specie di competizione, né permettono all’uomo, nemmeno per un attimo, di nutrire l’illusione di vivere in una società patriarcale. Alcune di loro, secondo me, evirano di proposito…»
«Ecco: ci siamo!» colse trionfante la palla al balzo Carol, dando di gomito ad Angie, sorridente ma anche un po’ imbarazzata dall’astio che emergeva dal diverbio. «Ha detto la parola magica? Ogni volta che una donna si permette di discutere e di non accettare come vangelo una qualche profonda verità maschile, ecco che tenta di “castrare” o di “evirare”…»
«Be’, ragazzi, adesso basta» intervenne deciso Troy, scuotendo la testa. «Cambiamo argomento. Io avevo pensato che voi due poteste magari godere di una serata in compagnia, ma se cominciamo così…»
«Il problema» continuò Carol, rivolta ad Angie e ignorando l’invito di Troy «è che gli uomini hanno paura, perché la comparsa di donne non più disposte ad andar scalze e incinte ne minaccia l’egemonia sul mondo occidentale. Se penso che, quand’ero a Stanford…»
Si arrestò allo scricchiolìo di una sedia spostata. «Con tutto il rispetto, signorina Leatherwood,» disse Nick, in piedi, le mani strette sullo schienale della sedia «credo proprio di dovermi scusare. La sua musica è stata per me un vero piacere, ma preferisco non sottoporla a ulteriori scortesie. Le auguro ogni fortuna per la sua carriera e spero che qualche volta vorrà passare un po’ di tempo in barca con Troy e me.» Poi, rivolto a Troy: «Ci vediamo domattina alle otto al porto». Infine, guardando Carol: «Anche tu, se hai sempre voglia di venire. Così ci racconterai dei perdiballe di Stanford quando saremo in mezzo al Golfo».
Senza aspettare risposta, raccolse la busta e si aprì la strada tra la massa dei clienti verso l’uscita. Quando fu quasi alla porta, si sentì chiamare: «Nick, ehi, Nick! Da questa parte!». Era Julianne, che gli faceva segno da un tavolo vicino, pieno di bicchieri e posacenere. Insieme con Corinne e Linda, era circondata da una mezza dozzina di uomini, ma stava allargando il cerchio per farvi entrare una sedia libera per lui. Nick accolse l’invito.
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