Che Angie Leatherwood si esibisse come vedette allo Sloppy Joe durante i suoi brevi e infrequenti ritorni nella città natia, era più che naturale. Il proprietario, un cinquantenne newyorkese trapiantato di nome Tony Palazzo, era stato a suo tempo convinto dalla loquela di Troy a concederle un’audizione quando aveva diciannove anni. Dopo cinque minuti d’ascolto, aveva esclamato, punteggiando le proprie osservazioni di gesti vivacissimi: «Non solo mi porti una ragazza nera bella da levare il fiato: ma me ne porti una che è bella e che canta anche come un usignolo. Mamma mia, la vita è proprio ingiusta! Mia figlia Carla ammazzerebbe, pur di cantare così!». Tony era diventato il maggiore fan di Angie, e ne aveva promosso la carriera senza badare minimamente al proprio tornaconto. E Angie, non dimentica di ciò che lui aveva fatto per lei, cantava sempre allo Sloppy Joe quando si trovava in città. Era fatta così.
Il tavolo di Troy era davanti e al centro, a circa tre metri dalla pedana. Nick e Troy vi erano già seduti e avevano già consumato un giro di bicchieri quando arrivò Carol. Mancavano circa cinque minuti alle dieci e mezzo. Lei si scusò mormorando qualcosa circa i vantaggi del parcheggiare in Siberia. Non appena si fu seduta, Nick estrasse la busta delle foto e sia lui che Troy le dissero di averle trovate affascinanti. Nick passò subito a far domande, mentre Troy chiamava il cameriere. Quando questi tornò con le nuove bevande, Nick e Carol erano ormai in piena conversazione. Discutevano degli oggetti della fessura, e Nick aveva appena detto che uno di essi sembrava un missile moderno. Ma erano le dieci e trenta, e un lampeggiare intermittente delle luci annunciò l’inizio dello spettacolo.
Angie Leatherwood era un’artista consumata. Al pari di molti dei migliori intrattenitori, non dimenticava mai che pubblico equivaleva a clientela, e che era il pubblico a creare la sua immagine e ad accrescerne la mistica. Cominciò con la canzone che dava il titolo al suo ultimo album: Memories of Enchanting Nights e passò quindi a un pot-pourri di canzoni di Whitney Houston, in segno di omaggio alla geniale cantante il cui talento era stato all’origine del suo desiderio di abbracciare la stessa carriera. Poi dimostrò la propria versatilità mescolando quattro canzoni dal ritmo diverso — un reggae giamaicano, una dolce ballata del suo primo album Love Letters , un’imitazione quasi perfetta di Diana Ross in una vecchia canzone dei Supremes, Where Did Our Love Go? , e un ritmico, struggente elogio del padre cieco intitolato The Man with Vision.
Scroscianti applausi salutarono la fine di ogni pezzo. Lo Sloppy Joe era zeppo, posti in piedi lungo i trenta metri di bancone-bar compresi. Sette supertelevisori diversi, sparsi per il vasto locale, portavano l’immagine di Angie agli spettatori più lontani dalla pedana. Tutti costoro erano la sua gente, i suoi amici. Un paio di volte, gli applausi e i brava, nella loro interminabilità, la misero quasi in imbarazzo. Al tavolo di Troy, non si parlò quasi durante lo spettacolo. Il terzetto sottolineò qualche canzone prediletta (quella di Carol era The Greatest Love of All , di Whitney Houston), ma non ebbe tempo per conversare. Angie dedicò la penultima canzone: Let Me Take Care of You Baby , al suo “amico più caro” (pedata di Nick a Troy sotto il tavolo), e poi concluse col motivo più popolare di Love Letters. Il pubblico le tributò un’ovazione in piedi e chiese a gran voce il bis. Mentre stava anche lui in piedi, Nick si sentì girare un po’ la testa in conseguenza dei due bicchieri di liquore forte, e avvertì insieme una commozione vaga, forse provocata dalle associazioni subliminali che le canzoni d’amore di Angie avevano saputo suscitare.
Angie tornò sulla pedana. Quando il chiasso si fu calmato, fu possibile udirne la voce morbida e carezzevole. «Come tutti sapete, Key West è per me un luogo molto speciale. È il luogo dove sono cresciuta e sono andata a scuola; il luogo dove mi riporta la maggior parte dei ricordi.» Qui si arrestò un istante a scrutare il pubblico. «Molte sono le canzoni che ridestano i ricordi e i sentimenti che vi sono legati. Ma, di tutte, la mia preferita è il tema conduttore della commedia musicale Cats. E a te, Key West, la dedico.»
Applausi sparsi, mentre i sintetizzatori musicali d’accompagnamento suonavano l’introduzione a Memories. Il pubblico rimase in piedi mentre la melliflua voce di Angie si lanciava nella bella canzone; e, fin dalle prime battute, Nick fu trasportato istantaneamente al Kennedy Center di Washington D.C., nel giugno dell’84, dove era andato ad assistere a una replica di Cats insieme con i genitori. Era finalmente tornato a casa per spiegare loro come mai non avesse potuto tornare a Harvard dopo le vacanze primaverili in Florida, ma, per quanto avesse tentato, non era riuscito a raccontare la storia a un padre deluso e a una madre dal cuore spezzato. Ogni volta, aveva cominciato con un «È stato per via di una donna…» e poi era ammutolito.
Era stato un triste ritorno. Mentre stava a Falls Church, a suo padre erano stati trovati nel colon, e asportati, i primi polipi maligni. I medici avevano ottimisticamente parlato di parecchi anni di vita, pur sottolineando la frequente insorgenza del cancro in simili casi e il formarsi di metastasi ad altre parti del corpo. In un lungo colloquio col padre improvvisamente infragilito, Nick aveva promesso di laurearsi a Miami. Questo, però, aveva dato ben poco piacere al vecchio, che aveva sognato di vedere il figlio laurearsi ad Harvard.
La rappresentazione di Cats al Kennedy Center non era parsa granché divertente a Nick. Verso metà spettacolo, si era sorpreso a domandarsi quanti del pubblico conoscessero davvero l’autore del materiale di fondo delle canzoni, quel poeta T.S. Eliot che non solo ammirava e apprezzava le caratteristicità feline, ma aveva aperto una sua poesia con una descrizione della sera come «largodistesa contro il cielo, come una paziente anestetizzata sul tavolaccio». Ma, quando la vecchia gatta dalla bellezza ormai avvizzita era venuta al centro della scena e aveva cominciato a cantare la canzone dei suoi “giorni al sole”, si era sentito commuovere al pari del resto del pubblico. Per ragioni a lui incomprensibili, aveva visto Monique nella parte della gatta, in anni futuri. E là a Washington aveva pianto lacrime silenziose, subito celate ai genitori, quando la voce dolorosamente pura della soprano aveva raggiunto l’apice della canzone.
« Toccami… È così facile lasciarmi… tutta sola coi ricordi… dei miei giorni al sole… Se mi tocchi… capirai che cosa sia la felicità… »
La voce di Angie allo Sloppy Joe non era altrettanto penetrante di quella della soprano di Washington, ma aveva la medesima intensità: un’intensità che evocava tutta la tristezza di una persona per la quale tutte le gioie della vita stiano nel passato. Gli occhi di Nick si riempirono di lacrime ai margini, e una traboccò a rigargli la guancia.
Dal punto in cui stava, Carol poteva vedere la guancia di Nick illuminata dal riflesso delle luci di scena. Colse così la lacrima, quella finestra di vulnerabilità, e fu presa anch’essa dalla commozione. Per la prima volta provò un’emozione profonda, anzi quasi un affetto per quell’uomo distante, solitario, ma stranamente attraente.
Ah, Carol, come sarebbe stato probabilmente diverso se, per una volta nella vita, non avessi agito d’impulso! Se gli avessi consentito di vivere il suo momento di solitudine o di strazio o di tenerezza o di ciò che comunque provasse, avresti potuto rievocare questo momento più tardi, in circostanze più serene, con qualche vantaggio. E la condivisione di tale momento avrebbe potuto finire per diventar parte di un legame fra voi. Ma tu dovevi invece battergli sulla spalla prima ancora della fine della canzone, prima ancora che lui si fosse reso conto di piangere, e spezzargli cosi la sua preziosa comunione col proprio io. Fosti, così, un’intrusa. E, come spesso accade, provocasti l’effetto opposto: lui vide nel tuo sorriso derisione, non comprensione, e come una tartaruga spaventata si ritrasse in sé per il resto della serata, deciso a respingere come insincera qualunque futura profferta di amicizia.
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