«E così ho appunto detto, tenente… mi compiaccio della sua attenzione. Ma la parola-chiave, qui, è “ragionevole”. Esaminiamo i fatti. Le ho o non le ho sentito dire che la sua unità di analisi telemetrica ha scoperto, questo pomeriggio, che i comandi rifiutati dal contaricezioni di bordo sono aumentati via via di numero durante il volo, e ciò già al largo del New Brunswick? E che, apparentemente, durante la discesa del missile lungo la costa atlantica, il numero dei messaggi-comando rifiutati è stato di oltre mille ? Bene, allora: se diamo per buono il suo scenario, tutto questo come lo spiega? Forse sostenendo che i russi avrebbero dislocato un’intera flotta navale lungo il sentiero di volo solo per confondere e catturare un singolo missile sperimentale della Marina?»
Poi, piantato ormai davanti al giovane tenente, che era più alto di lui: «O ritiene forse,» continuò sarcastico, senza dargli il tempo di rispondere «che i russi dispongano di una nuova arma segreta capace di volare parallelamente a un missile viaggiante a Mach 6 e di parlargli in volo? Andiamo, via, tenente: su quali basi “ragionevoli” continua a considerare possibile questa sua strampalata ipotesi russa?»
«Sul fatto, signor comandante, che, a questo punto, fra le possibili spiegazioni del comportamento del missile, non ce n’è una sola che regga» rispose il tenente Todd, non cedendo di un pollice. «Lei ora afferma di credere che si tratti di un problema di componenti di programmazione; ma i nostri migliori programmatori non riescono a capire come l’unica indicazione esteriore di una grave disfunzione a livello di sistema componentistico possano essere quei due, e solo quei due, contaricezioni impazziti. Hanno controllato tutti i dati diagnostici interni giunti a terra per via telemetrica, e non hanno trovato difetti dentro il sistema. Inoltre, il controllo prelancio rivela che le componenti di programmazione funzionavano tutte perfettamente a secondi dall’inizio del volo.
«Sappiamo, poi, un’altra cosa. Ramirez ha appreso da Washington che, nelle ultime quarantott’ore, si sono verificati strani movimenti nella flotta sottomarina russa al largo della Florida. Ora, io non sto dicendo che l’ipotesi russa, come la chiama lei, sia la risposta, ma soltanto che, fin quando non avremo una spiegazione più soddisfacente per un malfunzionamento in grado di far scattare entrambi i contaricezioni, è ragionevole nutrire l’ipotesi che, forse, il Panther sia stato effettivamente comandato fuori traiettoria.»
Winters scosse la testa. «E va bene, tenente» finì per dire. «Non le ordinerò di cancellare la sua ipotesi dalla lista: ma le ordino di dedicare il fine settimana a trovare il missile finito nell’oceano, e di identificare il problema — delle componenti fisiche e/o di programmazione — che può aver causato o l’anomalia dei contaricezioni o il mutamento di traiettoria, o tutt’e due. Perché una spiegazione non comportante operazioni russe su larga scala ci deve essere.»
Todd fece un passo di lato per scansarlo e lasciare l’ufficio. «Un minuto ancora, tenente, solo uno» fece Winters, stringendo gli occhi. «Non sarà necessario che le ricordi chi verrà giudicato responsabile se questa faccenda dei russi trapelasse, vero?»
«No, comandante… Signornò» fu la risposta.
«Allora si dia da fare,» disse Winters «e mi tenga informato di eventuali sviluppi.»
Il capitano Winters aveva fretta. Subito dopo uscito Todd, aveva chiamato il teatro per dire a Melvin Burton che sarebbe arrivato in ritardo. Infilata la macchina in un drive-in, ingollò un hamburger con patatine e diresse per il quartiere del porto.
Arrivò in teatro che la maggior parte degli altri attori era già in costume di scena. Sulla porta trovò Melvin ad accoglierlo: «Presto, comandante, non abbiamo tempo da perdere. Il trucco dev’essere come si deve, la prima volta». Consultò nervosamente l’orologio. «Lei è sul pulpito fra quarantadue minuti esatti.» Winters entrò nel camerino maschile, si tolse la divisa e indossò i severi paramenti neri e bianchi di pastore episcopale. Fuori nel corridoio, Melvin faceva a memoria un suo controllo finale andando avanti e indietro.
Al levar del sipario, il capitano Winters era sul pulpito — con la forte tremarella tipica delle prime. Guardò oltre le tre file di fedeli in scena, verso il pubblico che riempiva la sala, e vide la moglie Betty e il figlio Hap in seconda fila. Fece loro un rapido sorriso, mentre si spegneva l’applauso. Poi, il nervosismo ormai svanito, si lanciò nel sermone di Shannon.
Il breve prologo filò via in fretta. Poi le luci si attenuarono nuovamente per quindici secondi, ci fu il cambio automatico della scena, e Shannon/Winters entrò nella stanza d’albergo in Messico mormorando tra sé frasi della sua lettera. Sedette sul letto, poi, udendo un rumore nell’angolo, alzò gli occhi. Era Charlotte/Tiffani: la splendida chioma biondo-ramata sciolta sulle spalle, camicia da notte leggera di seta azzurra, scollatura a V sino alla vita ben riempita da seni grandi e fermi. «Larry, oh Larry, siamo soli, finalmente!» la sentì dire, mentre veniva a sederglisi accanto sul letto. Il profumo di lei gli riempì le narici. La mano di lei gli si posò sulla nuca, le labbra di lei premettero contro le sue, insistenti, dure, esploratrici. Lui si ritrasse: le labbra, poi il corpo di lei lo seguirono. Lui cadde all’indietro sul letto. Lei gli strisciò sopra, continuando a baciarlo, i seni premuti contro il suo petto palpitante. Lui la circondò con le braccia, stringendola dapprima piano, poi sempre più forte.
Per diversi secondi, fu un accendersi e spegnersi delle luci. Charlotte/Tiffani si sciolse da Winters per stenderglisi accanto sul letto. Lui ne udì il respiro affannato. «Charlotte» risuonò una voce. Un bussare imperioso alla porta, poi di nuovo: «Charlotte: lo so che sei lì». La porta si spalancò. I due amanti si tirarono su a sedere. Le luci si spensero e calò il sipario. Gli applausi echeggiarono forti e sostenuti.
Il capitanto Vernon Winters spinse la porta e uscì barcollando sul vicolo dell’ingresso-artisti. La porta, sovrastata da una singola lampadina avvolta in un nugolo d’insetti, dava su un piccolo pianerottolo di legno staccato di tre scalini dall’asfalto. Winters li discese e si fermò accanto al muro di mattoni rossi del teatro. Estrasse una sigaretta e l’accese.
Il fumo salì in volute su per il muro. Un bagliore di lampi lontani, un silenzio, poi il brontolìo del tuono. Aspirò a fondo una seconda volta, sforzandosi intanto di capire che cosa avesse provato in quei cinque o dieci secondi con Tiffani. Mi domando se se ne siano accorti , pensava. Sarà stato lampante per tutti? Nel cambiarsi per il primo atto vero e proprio, aveva notato i chiari segni sui boxer. Esalò altro fumo, e sussultò. E quella ragazzina! Dio mio, lei lo sa di sicuro: lo deve aver sentito, quando mi stava sopra.
Suo malgrado, ricatturò per un istante l’eccitazione provata quando Tiffani gli si era premuta addosso. Gli si mozzò il respiro, e cominciò ad avvertire i primi segni del senso di colpa. Oh Signore, ma cosa sono? Un vecchio sporcaccione, ecco cosa! Chissà perché, gli tornò in mente Joanna Carr, una certa sera di quasi venticinque anni prima. E ricordò il momento in cui l’aveva presa…
«Comandante» disse una voce. Si girò. Sul pianerottolo c’era Tiffani, in magliettina e jeans, i lunghi capelli sciolti. «Comandante,» ripeté con un misterioso sorriso, scendendo i gradini verso di lui «mi darebbe una sigaretta?»
Confuso, stupefatto, senza parole, lui infilò automaticamente la mano in tasca e tirò fuori il pacchetto di Pall Mall. La ragazza prese una sigaretta, ne batté la punta contro l’unghia e se la infilò in bocca. Destandosi finalmente, lui tirò fuori il suo accendino da quattro soldi. Lei mise le mani a coppa sopra le sue, tremanti, e aspirò con vigore.
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