A un tratto si rese conto di avere le lacrime agli occhi. O mio dio, sto per piangere… Imbarazzato oltre misura, si scusò bruscamente e uscì nel patio, le guance ormai rigate di lacrime. Se non mi controllo, qui finisce che mi siedo sull’erba a frignare come un bambino… Confuso, sconcertato, si mise a passeggiare a testa bassa per il giardino, tentando, invano, di ritrovare la respirazione normale.
Sentì una mano toccargli il gomito. Era Jane, l’ultima persona al mondo che in quel momento desiderasse vedere. «Fra qualche minuto verrà da te, ma, prima, lei e Aaron devono completare il giro dei saluti — sai com’è, quando si è padrone di casa a un ricevimento…» Jane accese una sigaretta. Nick sentì che stava per vomitare, si voltò di scatto per chiederle di spegnerla, e perse l’equilibrio.
Fosse l’alcol, fosse l’adrenalina, fosse che non ne poteva proprio più, il fatto è che si sentì girare vertiginosamente la testa. Così, senza volerlo, si appoggiò a Jane per sostenersi. Lei, fraintendendo, gli prese la testa contro la spalla. «Su, su,» disse «non prendertela tanto. Tu e Monique avrete ancora un po’ di tempo da stare insieme. Aaron si fermerà solo un paio di giorni e poi tornerà a Montreal per il suo lavoro. E poi,» aggiunse con brio «se sei bravo anche solo un filo rispetto a quello che dice Monica, sarò ben lieta di prendermi io cura di te mentre lei sta con Aaron.»
Nick la respinse di scatto, vacillando all’indietro come se avesse ricevuto una mazzata in faccia. Il significato di quelle parole gli apparve a poco a poco nella sua pienezza, suscitandogli un misto incontrollabile di rabbia e dolore. Cosa?! Cosa?! Ma allora sa: questa vomitevole puttana sa! E forse lo sanno tutti. Ah sì? Vaffanculo tutto, allora, vaffanculo! Poi, quasi immediatamente, mentre il cervello cominciava a rendersi conto degli eventi della serata: Come si esce di qui? Dov’è l’uscita? Mentre girava intorno alla casa (perché, dentro, non tornava di sicuro), dal profondo di sé udì montare un suono, un suono che saliva incontenibile alla superficie: il gemito del dolore, il grido nudo e ineluttabile dell’animale giunto alla disperazione totale. Millenni di acculturazione hanno fatto sì che accada di rado di udire gridi del genere in bocca a esseri umani. Ma il grido, acuto e inconsueto, che salì nella notte di Palm Beach come la sirena di un’auto della polizia, fu per Nick la prima consolazione. E, mentre gli invitati andavano chiedendosi che cosa fosse mai ciò che avevano sentito, lui montò sulla Pontiac 1977 e si avviò.
Diresse a sud per Fort Lauderdale, il cuore che seguitava a battere all’impazzata, il corpo tremante d’adrenalina, la mente un susseguirsi caotico di immagini sconnese. Fuoco di ciascuna era Monique: Monique in pelliccia di foca d’Alasca, Monique in costume da bagno bianco e rosso, Monique in abito da sera — di quella sera (un sussulto, quando sul margine sinistro dello schermo mentale apparve Aaron che scendeva le scale…). Tutto senza senso, dunque? Un gioco e basta? Nick era troppo giovane per conoscere i lati grigi della vita: era ancora nell’età del tutto bianco o tutto nero, quando ogni cosa è o favolosa o una merda. Monique, dunque, o lo amava appassionatamente e quindi doveva voler abbandonare la sua lussuosa vita per sposarlo, o lo aveva fin qui usato per soddisfare i propri bisogni sessuali e il proprio capriccio. Insomma , concluse, arrivando all’appartamento dello zio a Fort Lauderdale, sono stato uno dei suoi tanti giocattoli. Come le pellicce e i cavalli e gli yacht e i vestiti. Ho contribuito al suo piacere.
Schifato di sé, depresso oltre ogni dire, un’emicrania feroce provocata dai martini, non prese nemmeno il tempo di fare un bagno o di mangiare, ma preparò in fretta i bagagli. Poi caricò le due valigie in macchina e, lasciato alla direzione del complesso lo smoking preso a nolo, uscì dalla città in direzione dell’Interstatale 95. Circa tre chilometri prima di infilarla, accostò e si concesse un breve pianto. Fu tutto: e, da quel momento, nacque quella durezza esteriore che ne avrebbe caratterizzato i dieci anni di vita seguenti. Mai più , si giurò. Non permetterò mai più che una puttana si prenda gioco di me. No, caro mio, niente da fare.
Dieci anni più tardi, all’alba di un mattino di marzo nel suo appartamento di Key West, si sarebbe trovato a giocherellare con un oggetto di metallo dorato sul tavolino da caffè e avrebbe rivissuto il tremendo dolore della vista di Monique col marito a quel tal ricevimento. Tristemente, con un rimpianto da uomo maturo, avrebbe anche ricordato come, giunto alla I-95, avesse voltato a sinistra e a sud verso Miami e le Key, anziché a destra e a nord verso Boston. Allora, non avrebbe saputo spiegarne il perché. Forse, avrebbe detto che, dopo Monique, Harvard sembrava futile, o che, quello che meritava di venir studiato, era la vita, non i libri. Perché, allora, non aveva capito una cosa: che il suo bisogno di ricominciare da zero derivava dalla sua incapacità di guardare in faccia se stesso.
Erano cinque anni che non riviveva il ricordo di Monique dal principio alla fine. Quella mattina, per la prima volta, era riuscito a distanziarsi, pur se di poco, dalle emozioni rievocate, e a vedere l’intera storia con un minimo di prospettiva. Ora riconosceva così che, malgrado non riuscisse ancora a giudicare Monique del tutto priva di colpa, ciò che l’aveva portato a tutto quel dolore era stata la sua cieca passione giovanile. E, se non altro, il ricordo di quell’amore aveva perso il proprio potere di distruzione.
Prese il tridente e andò alla finestra. Forse i pezzi si stanno ricomponendo tutti, finalmente, pensò. Un nuovo tesoro, la muta definitiva dell’ultima angoscia adolescenziale… Pensò a Carol Dawson. Seccante, ma anche affascinante con quella sua veemenza. Da perenne sognatore, se la visualizzò fra le braccia, immaginando il calore e la dolcezza del suo bacio.
Carol osservò affascinata il polpo catturare la preda coi lunghi tentacoli. «Immagina cosa sarebbe avere otto braccia» disse Oscar Burcham. «Pensa solo a quale architettura deve avere il cervello per separare tutte le informazioni in arrivo, identificare ogni singolo stimolo e il rispettivo organo di provenienza, e coordinare tutti i tentacoli a fini di difesa o di acquisizione del cibo!»
Ridendo, Carol si volse al compagno. Erano di fronte a una grande finestra di vetro trasparente, all’interno di un edificio illuminato da una luce fioca. «Ah, Oscar, tu non cambi mai!» disse al vecchio dagli occhi vispi. «Soltanto tu puoi concepire tutte queste creature viventi sotto forma di sistemi biologici dotati di architetture. Ma non ti chiedi mai che cosa sentano, che cosa sognino mentre dormono, che cosa pensino della morte e come?»
«Ma sicuro» replicò Oscar con un brillìo ironico negli occhi. «Solo che, quando è già praticamente impossibile descrivere secondo verità i sentimenti degli esseri umani, coi quali pure esiste un linguaggio comune e una capacità di comunicazione evoluta, come vuoi che si faccia per conoscere, o anche solo per stimare, che so, il senso di solitudine dei delfini? Ecco allora che noi, da sentimentali, commettiamo la ridicolaggine di attribuir loro sentimenti umani.» Dopo una pausa di riflessione, continuò: «Sarà dunque più fruttuoso condurre la ricerca scientifica a livelli ai quali siamo in grado di capire le risposte. Alla lunga, secondo me, il conoscere come funzionano, in senso scientifico, queste creature ci offre una miglior probabilità di valutarne i quozienti emotivi; il che non accadrebbe con la conduzione di esperimenti scientifici dagli esiti ininterpretabili».
Carol si chinò a baciarlo con affetto. «Tu prendi sempre molto sul serio qualsiasi parola io dica, Oscar. Anche quando scherzo, badi sempre a ogni mio commento.» Poi, arrestandosi e guardando altrove: «E sei l’unico a farlo».
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