Ciò che conferiva all’appartamento una certa individualità erano i libri. Una grande libreria correva lungo la parete di fronte al divano, tra soggiorno e camera da letto, e andava in pratica dalla porta a vetri del balcone alla porta della camera da letto. Benché la nota dominante dell’appartamento fosse il disordine (giornali e riviste sportive disseminati qua e là sul tavolino, indumenti e asciugamani sul pavimento della camera da letto e del bagno, piatti sporchi nell’acquaio, lavastoviglie aperta e piena a metà di piatti), la zona biblioteca era chiaramente ben curata. Sui quattro scaffali della lunga libreria stavano allineati dai quattro ai cinquecento volumi: tutti tascabili, tutti o quasi romanzi, e tutti accuratamente suddivisi per categorìa.
Davanti a ciascun gruppo di libri, fissato col nastro adesivo sul davanti dello scaffale, c’era un foglio di carta col nome della categoria. A Fan’s Notes , il libro terminato di leggere in barca il giovedì, era già stato rimesso al suo posto (categoria «Lett. americana, sec. 20°, A-G»), subito a destra di una dozzina di libri o più di William Faulkner. Come lettura da capezzale, Nick aveva poi scelto un romanzo francese dell’Ottocento, Madame Bovary , di Gustave Flaubert, da lui già letto durante il secondo anno ad Harvard e giudicato così-così, e di recente, e con sua meraviglia, visto elencato da molte parti fra i dieci migliori romanzi di tutti i tempi, ossia accanto a capolavori come Delitto e castigo di Dostoievski. Mmm, c’è caso che mi sia sfuggito qualcosa, la prima volta , s’era detto la sera, prima di risolversi a una seconda lettura.
Sennonché, le magnifiche e particolareggiate descrizioni della vita provinciale francese di un secolo e mezzo addietro non avevano saputo afferrare per intero la sua attenzione. Aveva avuto infatti un bel seguire la vicenda dell’affascinante Emma Bovary, una donna che contrastava la monotonia della sua vita mediante avventure amorose che avrebbero scandalizzato il villaggio: una volta tanto, non era riuscito ad abbandonarsi. Gliel’aveva impedito l’agitazione che regnava ora nella sua , di vita: il pensiero dominante delle possibilità offerte dall’oggetto d’oro nella sacca sportiva.
Bevendo il caffè del mattino, si girò e rigirò l’oggetto fra le mani. Poi gli venne un’idea. Andò nella seconda camera da letto, di fronte alla cucina e accanto alla lavanderia, e aprì la porta dello stanzino guardaroba, che a lui serviva soprattutto da ripostiglio. In un angolo c’erano quattro scatoloni di cianfrusaglie che si era portati dietro quando aveva comprato l’appartamento, sette anni prima, e che da allora non aveva mai aperto. In uno, ricordava, c’era un mazzo di foto degli oggetti recuperati dalla Santa Rosa. Forse, guardandoci, scoverò qualcosa che assomigli a questo coso , pensò, armeggiando per trovare lo scatolone giusto nella luce fioca.
Trovatolo, lo trascinò in mezzo al soggiorno. A suo tempo, il contenuto era stato probabilmente messo in bell’ordine, come testimoniavano le cartellette etichettate di cartone; ma ora carte, foto e ritagli di giornale si erano in gran parte sfilati dalle rispettive sedi e giacevano là alla rinfusa, Nick ficcò la mano nel mucchio e tirò fuori un ritaglio del Miami Herald. Ingiallito dagli anni e spiegazzato (era finito in un angolo), era una grande fotografia di prima pagina, sulla quale si vedevano cinque persone, fra cui Nick.
Nick si arrestò un momento a guardare foto e didascalia. Ma è proprio passato tutto ’sto tempo? , si domandò. Quasi otto anni dal ritrovamento della Santa Rosa. La didascalia identificava i cinque individui della foto come l’equipaggio del Neptune , una barca da immersione e recupero relitti che aveva trovato una vecchia nave spagnola, di nome Santa Rosa, affondata nel Golfo del Messico circa quindici miglia a nord delle Dry Tortugas. Dalla nave erano stati recuperati oggetti d’oro e d’argento per un valore di oltre due milioni di dollari, ora ammucchiati davanti all’equipaggio che sorrideva felice. Da sinistra a destra, i suoi membri erano: Greta Erhard, Jake Lewis, Homer Ashford, Ellen Ashford e Nick Williams.
Questo era prima che cominciassero a mangiare , si disse Nick. Ellen mangiava per via di Greta, perché questo le dava inconsciamente una scusa per ciò che stava accadendo con Homer. E Homer mangiava perché poteva permetterselo. Come può permettersi ogni cosa. Per certa gente, l’unica salvezza sono le costrizioni: dagli la libertà, e dà fuori di matto.
Rovistando più a fondo nello scatolone, si mise a cercare una serie di una ventina di foto relative ai pezzi maggiori del recupero della Santa Rosa. Finalmente ne trovò alcune, in mazzi di quattro o cinque, in parti diverse di quella che stava ormai diventando una pigna inestricabile. A ogni nuova foto, dava un’occhiata attenta, poi, scuotendo la testa, constatava che mancava ogni somiglianza col tridente d’oro.
In fondo allo scatolone trovò una cartella gialla fermata da un elastico. Pensando lì per lì che contenesse le foto restanti della Santa Rosa , la estrasse e si affrettò ad aprirla. Dalla cartella scivolò, cadendo a terra, una foto 8 X 11 di una bella donna sui trent’anni passati da poco. Accompagnavano la foto appunti manoscritti, qualche lettera imbustata, e una ventina di fogli dattiloscritti a doppio spazio. Com’era possibile che non avesse riconosciuto quella cartella? , pensò Nick con un sospiro.
La donna della foto aveva lunghi capelli neri con un vago riflesso lucido sulla fronte, e portava una camicetta di cotone rosso-scuro, che, aperta in alto, rivelava un triplice filo di perle. In inchiostro blu, contrastante col rosso della camicetta, qualcuno aveva vergato, nell’angolo inferiore destro della foto e con splendida calligrafia da artista: « Mon Cher — je t’aime, Monique » .
Nick s’inginocchiò a raccogliere il contenuto sparso della cartella. Guardò a lungo il ritratto, il cuore in tumulto al ricordo della bellezza di lei, poi passò a riordinare le pagine dattiloscritte. Una recava in cima, tutto in maiuscolo: «MONIQUE», e immediatamente sotto «di Nicholas C. Williams». Cominciò a leggere.
«Il meraviglioso della vita sta nella sua imprevedibilità. La vita di ognuno di noi viene irrimediabilmente mutata da cose impossibili a prevedersi. Ogni mattina, usciamo di casa per andare al lavoro, a scuola o dal droghiere, e, novantanove volte su cento, torniamo senza che ci sia accaduto nulla d’interessante o che possiamo ricordare a un mese di distanza. In giorni simili, le nostre vite scorrono via nella banalità del vivere, alla cadenza fondamentalmente monotona dell’esistenza quotidiana. Ma quello per cui viviamo è un altro giorno: il giorno magico.
«Nel giorno magico, il nostro carattere si precisa, la nostra crescita accelera, e si compiono i nostri mutamenti emotivi. Talora, magari una sola volta nella vita, ci capita una serie di codesti giorni: giorni che arrivano uno dopo l’altro, e così pieni di vita, cambiamento e sfida, da trasformarci completamente e da soffonderci l’animo di gioia sconfinata. Accade così che, in periodi del genere, veniamo spesso sopraffatti dal semplice, incredibile miracolo del vivere in sé. Questa è la storia di uno di questi periodi magici.
«A Fort Lauderdale era l’inizio delle vacanze primaverili. La stagione di nuoto di Harvard si era appena conclusa, e mio zio mi offrì, come regalo per i miei ventun anni, l’uso del suo appartamento in Florida per un paio di settimane, così che potessi sfogarmi un po’ dopo i rigori dello studio e della pratica del nuoto…»
Eran quasi dieci anni che non guardava quelle pagine. Nel leggerne i primi paragrafi, ricordò vivamente l’estasi in cui erano state scritte. Due sere prima della festa… Lei, quella sera, aveva un impegno di società; sarebbe rientrata troppo tardi, e sarebbe venuta l’indomani mattina. Io non riuscii a dormire. Era la prima notte in una settimana che non stavo con lei. Si arrestò un istante: le antiche emozioni, turbinandogli dentro, gli davano un senso di vertigine e come di nausea. Rilesse il primo paragrafo. Ed è stato prima del dolore. Prima dell’incredibile, maledetto dolore.
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