Elizabeth annuì. «Ci penso io.»
«Non capisco,» disse George. «Non potevano aspettarsi che Mandy facesse quello che le chiedevano. A meno che… Potrebbero farlo solo per ridurci con i nervi a pezzi?»
«Può darsi.» Selby si strinse nelle spalle. Le voci si sentivano ancora, fievoli e lontane. «Ovviamente, è inutile cercare di parlare con loro.»
«Ne è sicuro?» chiese Mandy.
Per tutta risposta, Selby tornò alla finestra, la riaprì. Le voci erano confuse, ma si distingueva qualche parola:
«Vieni fuori… vieni fuori… fuori… vieni fuori, Mandy… fuori… fuori?»
Elizabeth chiese: «Perché Mandy?»
«Probabilmente perché pensano che sia qui in cucina.» Selby richiuse la finestra, e il suono delle voci si attuti. «Faremmo bene a finire di sbarrare le altre finestre.»
Inchiodarono le assi di traverso su tutte le finestre della parte superiore dello chalet. Le assi non bastarono per ultimare il lavoro, e per le ultime finestrelle dovettero rompere delle cassette di legno. Il risultato non era perfetto, ma sembrava efficiente. Per Douglas, quel lavoro era più deprimente che rassicurante; stavano rinforzando una prigione dall’interno. La nebbia grigia nascondeva ancora il sole, e con le assi di legno inchiodate davanti ai vetri, le stanze erano molto buie. Di tanto in tanto si udivano i richiami lontani delle voci; andavano e venivano con una bizzarra periodicità. Provò un senso di sollievo quando inchiodarono l’ultima asse attraverso il vetro smerigliato del bagno del primo piano, e George disse:
«Penso che basti così.»
Selby chiese: «E la facciata del piano terreno?»
«Non abbiamo più assi. Comunque, là c’è sempre qualcuno di guardia. Credo che un goccetto sia indicato, dopo questa fatica. Porti giù il martello e i chiodi, Douglas, per favore.»
Era un sollievo trovarsi in una stanza dove le finestre lasciavano entrare tutta la luce, anche se era la luce fioca filtrata dalla nebbia. Douglas diede un’occhiata all’orologio. Le undici e mezzo. Il lavoro aveva richiesto più tempo del previsto. Mentre George si dava da fare dietro il banco del bar, andò in salotto. Aveva visto Jane solo per pochi minuti, quella mattina, e scoprì di essere ansioso di rivederla. Lei era seduta in poltrona accanto al fuoco con un libro… lo stesso volume rilegato in pelle della sera prima. Fu questo, inaspettatamente, che lo bloccò, ricordandogli le confidenze che si erano scambiati, e che da allora non si erano più ritrovati soli.
Il blocco fu solo di un momento. Attraversò la stanza, lieto di averla trovata sola. Adesso erano tutti uniti, resi più umani e più vicini dal pericolo esterno: ma l’alleanza creata dalle confidenze intime era diversa e più forte. Per lui, la debolezza di volere e di non essere voluto. Per lei, l’apatia di non volere più niente. E per entrambi la solitudine. Jane alzò gli occhi al suo appressarsi e lui disse, sorridendo:
«Abbiamo sbarrato tutte le parti della casa, tranne questa. Adesso dovremmo essere abbastanza al sicuro.»
Naturalmente, non aveva intenzione di riprendere la conversazione della sera prima: era sufficiente che avesse avuto luogo, che fosse stata un atto di comprensione reciproca. Ma non era preparato al modo con cui Jane reagì alla sua presenza: confusione, disagio… persino disgusto.
«Sì,» disse lei. «Ho sentito i colpi di martello.»
Era una reazione minima, chiaramente voluta. Jane l’accompagnò con un debole sorriso educato, e riprese subito a leggere. Douglas rimase ritto davanti a lei, conscio di fare la figura dello sciocco. Dopo un momento disse:
«George sta aprendo il bar. Vuole bere qualcosa?»
«No.» Jane scosse il capo. «Non credo, grazie.» Alzò di nuovo gli occhi, per un attimo. «Ma lei vada pure, se vuole.»
Era un congedo sottinteso. Douglas provò irritazione e risentimento: soprattutto al pensiero che Jane, come lui sospettava, lo ritenesse così grossolano da pensare di riaprire un argomento che lei considerava chiuso. Di fronte a quel contegno, provò l’impulso di fare esattamente quello… di dirle che era proprio il suo egocentrismo, il suo rifiuto di coesistere con gli altri, a farle apparire la vita senza scopo. Resistette alla tentazione, ma continuò a stare lì, un po’ per incertezza, un po’ per dispetto. Poi udì il suono diverso e disse, involontariamente:
«Che cos’era?»
Jane alzò di nuovo la testa. «Cosa?»
«Ascolti.» Accorse alla porta-finestra che dava sulla terrazza e l’aprì. «Ecco!»
Lei posò il libro e gli andò accanto. Douglas vide che l’indifferenza era svanita, e che Jane era agitata: ma anche lui era troppo agitato per provarne soddisfazione. Lei disse:
«Un aereo! E vicino.»
«Un elicottero.» Douglas chiamò: «George, Selby!» Fuori la nebbia turbinava, come scossa dal ritmo irregolare del rombo del motore. Disse felice: «Fa piacere sentirlo, no?»
George e Selby arrivarono dal bar, con i bicchieri in mano. Avevano entrambi l’aria contenta: George sorrideva. Uscirono sulla terrazza, e Douglas li seguì. L’elicottero era vicinissimo: non più di seicento metri, calcolò Douglas.
Selby disse: «Non è un po’ pericoloso, con questa nebbia?»
«Deve essersi diradata,» fece George. «Il pilota la sta sorvolando.» Alzò gli occhi, nella nebbia. «Lassù qualcuno mi vuol bene. E io voglio bene a lui. Sul serio.»
«Non può scendere,» obiettò Selby. «E noi, certamente, non possiamo saltare fin lassù. La situazione non migliora di molto.»
«Stanno compiendo una ricognizione,» disse George. «Penso che il bollettino meteorologico abbia annunciato che la nebbia sta per diradarsi, e che siano un po’ preoccupati per noi. Dopotutto, siamo isolati da quattro giorni.» E sorrise di nuovo. «Anche se non possono scendere, è bello sapere che pensano a noi.»
Selby guardò fuori. «Mi pare che si stia schiarendo un po’. Non molto. Ma sembra che ci sia un po’ più di luce.»
«Sì,» fece George. «È vero.»
Quando il pranzo fu pronto, ormai non c’erano dubbi: la nebbia si era diradata. La visibilità era di quindici o venti metri, e dalla parte dove si trovava il sole la luce era più intensa. L’elicottero se ne era andato da un pezzo, ma la giornata aveva un’aria più allegra. Mandy era riuscita a trasformare farina, acqua, carne salata, verdure in scatola ed erbe secche in un ricco stufato con pallottole di pasta, e George servì un Dole Pinot Noir, pesante, ottimo, scurissimo. Era molto felice, e continuava a riempire i bicchieri. Alla fine, Selby protestò:
«Se non ci andiamo piano, questo pomeriggio non saremo più in grado di combinare niente.»
«E cosa dovremmo combinare?» disse George. «Abbiamo già sbarrato tutto quanto.»
«Dovevamo fare una sortita per catturarne uno. Oppure preparare una trappola, o qualcosa del genere.»
«È inutile,» disse George. «La nebbia si sta alzando. Appena se ne sarà andata, l’elicottero tornerà. Ci tireranno fuori di qui, e allora lei potrà dare la caccia al suo esemplare. Nessuna obiezione.»
Elizabeth disse: «Qualcuno ha più sentito le voci, da quando è passato l’elicottero? Io no.»
«Si saranno allontanati, penso,» disse George. «Probabilmente si saranno spaventati a morte.»
«È quel che mi domando,» fece dubbioso Selby.
«Comunque, l’unica cosa da fare è starcene tranquilli.» George si riempì il bicchiere fino all’orlo. «Starcene tranquilli e aspettare. Il tempo lavora per noi.»
Il sollievo dimostrato era, a rigor di logica, una misura della precedente tensione. George era stato sottoposto a una tensione maggiore di quanto fosse apparso, e Selby se ne rendeva conto soltanto ora: e questo spiegava la sua euforia. Dopo il pranzo, Mandy portò il tè in salotto, e George propose di bere del brandy. Nessun degli altri accettò, ma lui se ne versò una dose abbondante. Aveva il volto arrossato dal liquore già bevuto, ma per il resto sembrava normale. Doveva avere un’ottima resistenza all’alcol, e probabilmente era il tipo che crollava alla fine, di colpo.
Читать дальше