Lei aveva capito. «Glielo dirai a Clyde?» aveva chiesto. Cooper aveva scosso il capo. «Non lo so. Non sono sicuro che sappia mantenere un segreto.» Una piacevole sensazione di calore: Clyde aveva un anno più di lei, ma era di lei che Cooper si fidava: era sempre stato così. Ma anche Clyde era simpatico, anche se parlava troppo e rideva troppo.
E anche i cugini erano simpatici: Hilda che aveva la sua età, Catharine, di qualche mese più giovane di Cooper, ma così timida e ingenua, e Charlie, che aveva solo sei anni. Nel complesso, era stata una meravigliosa estate: così divertente e, nonostante la Borsa e ciò che era accaduto allo zio Lee, così piena di felicità. Probabilmente c’era stato qualche litigio, inevitabile, quando Cooper e Clyde si trovavano insieme: ma lei non li ricordava. Solo le mattinate luminose, quando andavano al mare, i pomeriggi dorati tra l’erba alta del frutteto: e nei pochi giorni di pioggia, la vecchia casa che scricchiolava quando loro sei giocavano a nascondersi, e a quel gioco che aveva inventato Cooper, con tutte quelle regole complicate, un po’ come gli scacchi, un po’ come guardie e ladri, e loro giocavano in tutti i corridoi e le stanze della casa. Per tutta la sua vita, non si era mai sentita a suo agio come quell’estate, non aveva più provato quel senso di comunione e d’affetto.
E tutto era finito, disperso, sbiadito come una vecchia foto che finisce per non avere più un significato. Cooper morto su Berlino. Clyde morente in un ospedale nell’Africa settentrionale. Catharine in quell’ospedale nel Vermont, dal quale probabilmente non sarebbe più uscita, anche se avrebbe potuto vivere ancora trent’anni. Hilda che aveva appena divorziato per la terza volta e si era risposata. E il piccolo Charlie, agente di cambio, impegnato a riguadagnare il danaro perduto da suo padre, disperato e fortunato e con dieci chili di troppo, con tre figli troppo grassi e una moglie troppo magra. E lei, naturalmente.
Il legno scricchiolò di nuovo, e poi ritornò il silenzio. Guardò le lancette luminose dell’orologio, socchiudendo gli occhi. Le undici passate. Ormai, George non sarebbe salito fino dopo le due. Tanto valeva addormentarsi.
Ma il sonno sfuggiva ancora. Tornò a fantasticare dei bei tempi andati e, sebbene sveglia, era felice. Quella volta in barca… quella volta sulla spiaggia… il pic-nic tra le dune… persino la morte del vecchio Caesar, perché c’era stato il tempo di seppellirlo, e di piangere, eppure di sentire che era giusto che morisse, perché era un cane molto vecchio, e che venisse sepolto nel frutteto, con la croce di legno che avevano fatto i ragazzi, e con l’iscrizione dipinta da Cooper: «Caesar, di anni dodici, quasi tutto bulldog.»
Era mezzanotte e dieci quando tornò a guardare l’orologio. Douglas doveva essere andato a letto. Si alzò, cercò a tentoni le pantofole, trovò la vestaglia appesa alla porta. Non si prese la briga di accendere la lampada, e si avviò alla cieca verso il ballatoio. Il chiarore della lampada al piano di sotto la guidò verso le scale. Era buio, ma lei riuscì a scendere, reggendosi al corrimano della ringhiera, cercando di non far rumore per non disturbare gli altri. Nel corridoio c’era una lampada accesa, e altra luce veniva dalla porta semiaperta del bar. Mandy la spalancò ed entrò.
George stava guardando dalla finestra: le tende erano aperte. Nel sentirla, si voltò di scatto, con gli occhi gelidi, muovendo le labbra, e Mandy pensò che stesse per arrabbiarsi con lei.
«Volevo solo…» cominciò.
Non sapeva cosa dire. George la fissò per un momento, poi fece:
«Non sapevo che fossi tu, Mandy.» La sua voce era mite; lo vide rilassarsi. «Non riuscivi a dormire, tesoro?»
«Non molto bene.»
«Non voglio che questa faccenda ti deprima.» George attraversò la stanza, le cinse la vita con un braccio. «Non dimenticare che contiamo tutti su di te. Comunque, dato che sei scesa, beviamo qualcosa.»
George aveva già bevuto parecchio. Aveva la voce un po’ impastata, ed era molto insolito, in lui. Mandy disse:
«Forse non dovrei.»
George la lasciò, passò dietro al banco.
«Cosa prendi? Brandy? Gin?»
«Un po’ di gin, allora.» Lo guardò versarlo, e poi versare un altro whisky per sé. «Sto bevendo troppo, George.»
«Tutti noi beviamo troppo,» disse lui. «Tutti quanti. Forse dovremmo smetterla con questo mestiere. Cosa ne dici? Ricordi quel tale che mi voleva come pilota per l’agricoltura? Forse dovrei prenderlo in parola. Persons? Devo avere l’indirizzo da qualche parte. Aveva la sede a Bournemouth, no? Potremmo prendere un cottage nella New Forest… bellissima zona. E bere birra. Nessuno beve mai troppa birra. Cosa ne diresti, Mandy?»
«Potrebbe essere divertente.»
«Saprei cavarmela benissimo. Roba da ridere, dopo aver pilotato un Lancaster. E poi, è un lavoro utile… capisci cosa voglio dire? Al lavoro per la vittoria: due fili d’erba che crescono dove prima ne cresceva uno solo… qualcosa del genere.»
«Sì,» convenne Mandy. «Sapresti cavartela.»
«E poi un po’ di lavoro a spargere insetticidi all’estero, per non diventare troppo insulari. È il guaio degli inglesi… troppo insulari. Magari qualche mese nel Sud America. E tu verresti con me, naturalmente. Non andrei mai da nessuna parte se non con te, Mandy. Lo sai.»
Lei chiese: «Hai bisogno di me, George?»
«Se ho bisogno di te?» Lui la fissò. «Certo che ho bisogno di te. Lo sai benissimo. Vero che lo sai?»
Non in quel momento, pensò di dirgli lei: non lì, alle ore piccole, quando si sentiva solo, e sbronzo, e confuso e infelice. C’è un modo diverso di avere bisogno di qualcuno. Com’era con Cooper e con me, e persino Clyde, e i cugini. E tu… non è così che hai bisogno di me. È passato tanto tempo da quando qualcuno…
Sorrise e gli disse: «Sì, lo so.» George la stava ancora guardando. «Si dicono tante schiocchezze, nel cuore della notte.»
Lo sguardo di George la lasciò, si perse in lontananza. «O magari andare in Estremo Oriente. C’è molto da fare, da quelle parti. Ho sempre desiderato di vedere l’India. Ci mandarono laggiù con gli aerei nel ’45, e ci fecero tornare indietro la stessa settimana. Una delle solite stupidaggini che combinavano allora.»
Parlare lo rendeva felice. Erano passati cinque anni da quando aveva incontrato Parsons, un ometto agitato dagli occhi sporgenti dietro gli occhiali cerchiati di corno, che continuava a parlare della sua «visione»: e quel tema era rispuntato a intervalli, quando George era stanco, depresso, sovraffaticato. Si sentiva lusingato all’idea di poter riprendere a volare, anche se aveva passato da un pezzo la quarantina. Con l’andare degli anni, era diventato una specie di sogno complicato. Mandy ascoltò, annuì, e bevve il whisky che lui le aveva versato. Era bello che George potesse ancora vivere nel futuro, anche se era soltanto un futuro di sogno.
Lui guardò l’orologio e disse: «Dovresti tornare a letto, Mandy. Ti attende un’altra giornata di lavoro.» Ma quando lei affermò che non era stanca, George non insistette. Le riempì il bicchiere, poi riempì il proprio, e continuò a parlare.
Alle due, Mandy gli ricordò di chiamare Selby. Poi andò a letto, e li sentì parlare sottovoce per la scala. Poco dopo, arrivò George. Andò a letto, e si addormentò quasi subito. Per un po’, Mandy rimase sveglia. Caesar, pensò… e il gattino che giocava sempre con lui, e gli saltava sulla schiena, gli infilava la testolina nella bocca bavosa. Ma quale gattino? Non Franklin. Joey. Che era morto, vecchissimo, nel ’47, l’anno in cui era nata Lois… E allora non era stata una cosa triste, perché lei non lo vedeva più da tanti anni, e l’aveva quasi dimenticato. E perché c’erano tante cose per cui vivere.
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