Insieme a quel sollievo lievemente ebbro vennero altre cose. George cominciò a parlare dei figli di Selby, della possibilità che fossero in pensiero per i genitori. Selby scrollò le spalle.
«Credo che non abbiano detto loro nulla. Sono tutti e due in collegi diretti da gente sensata. Abbiamo mandato loro delle cartoline il giorno prima di rimanere isolati. Potremo telefonare a tutti e due non appena arriveremo a Nidenhaut.»
George lo fissò. «E del resto, non è che vi vedano molto, no? Quanti anni hanno, fra l’altro?»
«Cassie undici. Mike otto.»
«Otto? E da quanto tempo è in collegio, quel poverino?»
«Da settembre.»
«Cristo! Mi vien male a pensarci.»
Selby disse, in tono conciliante: «Siamo andati a vedere la scuola, prima di mandarlo. Anzi, abbiamo escluso quella dove avevo studiato io perché ci è sembrata un po’ troppo spartana. Questa è più comoda. E simpatica, con gente pure simpatica. Mike è sistemato bene. È stato contento di venire a casa per Natale, ma poi è stato anche contento di ritornarci.»
«Anche lei è stato mandato in collegio a otto anni, immagino.»
«Sì.»
«E le piaceva?»
«Ricordo di avere pianto un po’, le prime sere. Poi mi piacque.»
«E perché ha dovuto farlo lei, deve andar bene anche per il bambino. Non è così?»
«Non è esattamente il modo in cui lo direi io.»
«Avanti, sotto la macina, in modo che sia pronto per la vita. La scuola preparatoria e la public school. E cosa conta quel che gli succede, purché venga colato nello stampo giusto?»
Selby disse: «L’infanzia può essere dura in molti modi diversi. Lei dovrebbe saperlo.»
«Io non sono stato impacchettato e spedito via a otto anni. Immagino quello che avrebbe detto mia madre, se qualcuno ci si fosse provato.»
«Ciascuno la pensa a modo suo. Il mondo è bello perché è vario, no?»
George disse, disgustato: «Vario? Dov’è la varietà in una serie di copie a carta carbone?»
«Be’, allora tra una specie e l’altra.» Selby gli sorrise, disinvolto. «Tra la sua specie e la mia.»
Aveva fatto quell’osservazione per pura curiosità che venne soddisfatta dal rossore più cupo sulla faccia di George. Era una scortesia, lo riconosceva, ma c’era stata la provocazione. E se ci si votava alla mimesi protettiva, non era una buona idea rispondere con antislogan alle grida tribali. Il senso delle convenienze avrebbe dovuto impedirlo. Ma non era così, naturalmente. Un uomo poteva rinnegare la propria classe, la propria fede, il proprio paese, ma quel marchio di fabbrica se lo portava addosso per tutta la vita.
Selby continuò, con l’intenzione di placare George: «In realtà, sono contrario all’idea di spedire i bambini in collegio, indiscriminatamente. Ce ne sono certuni che non si dovrebbero mai mandare, e certe scuole cui non si dovrebbe mai affidare un bambino. E in una società di tipo diverso, sarebbero diversi anche i valori. Bisogna fare del proprio meglio con quel che si ha a disposizione. Io sono un tipo pratico, non un idealista.»
E questo era vero, pensò, e ragionevolmente onesto. Era piacevole migliorare la sorte umana, per quel po’ che si poteva: ma non era un impegno ardente. In quel senso, il suo lavoro aveva una posizione periferica nella sua vita, non centrale. Qual era l’elemento centrale? si chiese Selby. Elizabeth? Oppure vivere bene… o stimare se stesso? Era un problema noioso, decise, e lasciò perdere.
George disse: «Io sono contrario per principio. Gli inglesi sono l’unico popolo al mondo che ne vada matto. Perché sono troppo maledettamente pigri per prendersi il disturbo di badare ai propri figli.»
Si era ripreso, ma parlava a voce molto alta.
«C’è qualcosa di vero in ciò che afferma,» fece Selby, in tono conciliante.
Poco dopo George se ne andò, con la scusa di andare a dare un’occhiata alla caldaia. Si capiva che era ancora infuriato con Selby, e probabilmente anche con se stesso. No, pensò Selby. Nonostante la provocazione, aveva fatto male a lasciarsi andare. C’erano dei doveri nei confronti dei fratelli più deboli, se non altro per poter stare tranquilli. Si avvicinò allo scaffale, ma trovò pochi libri interessanti. Stava sfogliando un’opera di oftalmologia, in francese, e si chiedeva come mai fosse finito lì quando si aprì la porta della sala da pranzo. Si voltò e vide Diana.
«Bene,» disse. «Credevo che foste tutti occupati a giocare a Monopoli.»
«Sono stata eliminata. Cercavo qualcuno con cui parlare.»
E dove esisteva un libro, si chiese Selby, che fosse attraente anche solo una millesima parte di una ragazza giovane, graziosa e disponibile? Le rispose, con calore:
«Non andare oltre. Lo hai trovato.»
Diana sorrise e si avvicinò alla porta-finestra. «È molto più chiaro,» disse. «Si vede quasi il sole. Non possiamo uscire?»
Selby le andò accanto, aspirando con piacere il suo profumo.
«E perché no? Comunque, solo sulla terrazza. Ma faremmo meglio a metterci addosso qualcosa di pesante. Credo che fuori sia più freddo di quel che sembra.»
Indossarono i cappotti e uscirono sulla terrazza. Era freddo, ma un po’ meno di prima. Si appoggiarono alla balaustrata, con le braccia che quasi si toccavano, e guardarono lontano. Non c’era ancora molto da vedere: la neve davanti alla casa, il mucchio di legna e poi i capanni. Un venticinque metri di visibilità, forse. E la nebbia era a banchi… turbinava, si addensava nello spazio sgombro davanti a loro, si disperdeva lentamente. Era troppo rischioso per far atterrare un elicottero, soprattutto in montagna. Ma si stava schiarendo. Tutto intorno a loro c’era una luminosità perlacea, come se fossero al centro di un enorme uovo ghiacciato.
«È piacevole uscire,» disse Diana. «Detesto restare chiusa in casa troppo a lungo.»
«Sì,» disse Selby. «Sono d’accordo.»
«O peggio ancora, star chiusa in un appartamento. Io li odio. Anche tu abiti in un appartamento, Selby?»
Lui annuì. «Un posto molto tetro, dalle parti di Cromnwell Road. Ma abbiamo una casetta nel Kent, dove ci rifugiamo per i week-end.»
«Nel Kent! È meraviglioso! Da che parte?»
«Vicino al confine con il Sussex. Non lontano da Hawkhurst.»
«Sì, meraviglioso! Specialmente di primavera.»
Diana parlava con entusiasmo, e con un piccolo, giusto tocco di nostalgia. E a questo punto, ovviamente, sarebbe stato giusto dirle che sarebbe dovuta andare da loro, qualche week-end. No, piccola, pensò Selby. I miei progetti su di te non comprendono dei week-end al cottage, con o senza Elizabeth intorno. In campagna, magari, ma da un’altra parte. Magari nel Suffolk. C’era quell’incantevole locanda sul fiume, e la pianura, pensava lui, di solito tendeva a mettere in risalto la vivacità delle ragazze.
«Abbastanza piacevole,» ammise. Agitò le braccia in direzione del punto in cui, per un attimo, era quasi apparso il disco del sole. «Se fossi un tipo religioso, credo che mi dedicherei all’eliolatria.»
Diana lo fissò ridendo. «Elio… che?»
«Culto del sole. Hai visto il cartello fuori dallo chalet, sulla strada per Nidenhaut?»
«No. Che cartello?»
«In francese, e ricavato da un grosso pezzo di legno. C’era scritto, in una traduzione approssimativa: ‘Il sole è la patria… seguire l’uno è servire l’altra.’»
«E cosa significa?»
Selby sorrise. «Non lo so bene. Però mi piace.»
Di colpo, inaspettatamente, Diana si animò. Gli occhi azzurri lo fissarono solennemente.
«Prendi mai qualcosa sul serio, Selby?»
«Molte cose.»
«Quali?»
«Le piccole cose. Quelle grandi le lascio agli individui dalle menti più profonde e dallo spirito più elevato. Perché, tu prendi sul serio la vita?»
Diana fece, mestamente: «Purtroppo no. Mi sforzo di farlo, di tanto in tanto.»
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