John Christopher - I possessori

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I possessori: краткое содержание, описание и аннотация

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Sfuggiti a una catastrofe cosmica i Possessori vagavano negli spazi siderali. Le spore erano state lanciate in tempo con la speranza che potessero ricreare su qualche pianeta remoto quelle creature quasi onnipotenti del cui seme erano portatrici. Le spore viaggiano.. e periscono.. nel gelo incommensurabile dei giganteschi pianeti esterni… ma alcune sopravvivono. Riposano tra i ghiacciai in attesa della vita. E sulla Terra, in Svizzera, uno strano contagio minaccia l’uomo. Pazzia, redivivi, strane cose succedono. Questa strana “presenza” deve essere distrutta!

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George disse: «Pensavo che sarebbero tornati.»

Vi fu un silenzio. Ogni minuto che passava, pensò Selby, era un altro chiodo piantato nella bara della soluzione consolante e soddisfacente che tutti speravano di trovare. Disse, bruscamente:

«Che armi ha in casa?»

George alzò la testa. «Armi?»

«Qualche fucile?»

«Un calibro dodici. D’estate, vado un po’ a caccia di conigli.»

«Cartucce?»

«Un paio di scatole. Senta, Selby, dove vuole arrivare? Sono soltanto tre, e uno è un bambino. È improbabile che ci attacchino.»

«Quando siamo insieme no: su questo sono d’accordo. Siamo molto più numerosi. Ma se qualcuno deve uscire da solo, ritengo che debba essere in grado di difendersi.»

«Di difendersi?» chiese Douglas, incredulo. «Dai Deeping?»

Ma nella sua voce c’era apprensione, non soltanto incredulità. C’era un pericolo, pensò Selby, indipendente dalla possibile minaccia rappresentata dai Deeping dopo la metamorfosi: il pericolo del panico. Da quel punto di vista, George aveva avuto ragione, la sera prima, e lui aveva avuto torto. Ma dovevano rendersi conto che il pericolo esisteva. Pensò, stancamente: è probabile che io non abbia le idee chiare. Due notti di seguito in piedi, e solo qualche ora di sonno. Scosse il capo e bevve il caffè che Mandy aveva portato.

George disse: «Non uscirà nessuno. Del resto, sarebbe una pazzia, con questa nebbia. Per il momento non possiamo far altro che starcene qui, e vedere cosa succede. Alla fine, saranno loro a dover venire da noi. Li spingerà la fame. Si sono precipitati fuori così in fretta che non possono avere avuto il tempo di prendere delle provviste.»

«Può darsi che a lungo andare abbia ragione lei: ma non mi aspetto risultati immediati.»

«E perché?»

«Per quanto riguarda la fame soggettiva, non vedo perché dovrebbe dare loro più fastidio di quanto sembri dargliene il freddo. Non reagiscono più in modo normale ai comuni sintomi fisici. Comunque, hanno ancora bisogno di cibo come carburante, è ovvio: ma probabilmente gliene basta molto meno. Il metabolismo ridotto comporta un minore consumo di energie. E può darsi che quando non debbono agire entrino in una specie di stasi. Vi ricordate il coma del bambino, e la sua ibernazione, quando si è seppellito nella neve? E probabilmente sono in grado di utilizzare le riserve. Per il bambino non sarà così, ma i due adulti hanno addosso abbastanza grasso per tirare avanti parecchio, al ritmo con cui sembrano agire.»

George osservò: «Debbo dire che non è una prospettiva molto allegra. Per quanto crede che durerà?»

«Non ne ho idea.»

Douglas osservò: «Stiamo parlando di loro come se non fossero… be’, umani.»

Era inutile fare commenti, pensò Selby. George pareva pensarla allo stesso modo. Disse a Selby:

«Però porterebbero egualmente via dei viveri, se ne avessero l’occasione, no? Dovranno pur mangiare, prima o poi.»

«Il bambino si è portato via dei viveri, la prima volta che ha lasciato la casa. Sì, prima o poi avranno bisogno di cibo.»

«Mi chiedevo se non potremmo trovare il modo di preparare una trappola,» disse George. «Usando come esca i viveri. Qualcosa del genere».

«Potremmo tentare.» Selby sbadigliò. «Non sappiamo bene come funzionano le loro menti, ma sarebbe un errore considerarli meno intelligenti di quanto fossero… prima di cambiare.» Si interruppe, ripensò al viso che aveva veduto. «Sì, sarebbe un grave errore.» Finì il caffè. «Dio, come sono stanco. Vado a dormire un po’. Chiamatemi, se succede qualcosa.»

Si addormentò non appena si fu buttato sul letto, e dormì di un sonno pesante, senza sogni. Elizabeth dovette scuoterlo per svegliarlo. Aprì gli occhi e la guardò, stordito.

«Mezzogiorno,» annunciò lei. «Avevi detto di svegliarti a quest’ora.» Sorrise, un po’ freddamente. «Mi sembri un po’ malconcio, però. Quanto whisky hai bevuto, stanotte?»

«Ho sete,» borbottò lui.

Il bicchiere era vuoto. Elizabeth lo riempì sotto al rubinetto e glielo portò.

«Preferisci pranzare a letto?»

Selby scosse il capo, adagio. «No, mi alzo.» Quando Elizabeth si voltò per andarsene, le chiese: «È successo qualcosa, mentre dormivo?»

«Niente. E siamo ancora circondati dalla nebbia.»

Selby guardò la finestra, un vacuo riquadro grigio. Non era molto rincuorante. Ma era un sollievo sapere che la mattina era trascorsa senza che accadesse nulla.

Selby fece il bagno, si vestì e scese. Trovò Douglas e George nel bar; il primo beveva una birra, l’altro brandy e ginger ale. George chiese:

«Come va? Cosa prende?»

«Birra anche per me, grazie. Penso che vada tutto bene.»

«Per il momento. Vorrei che la nebbia se ne andasse.»

«Di solito quanto dura?»

George alzò le spalle. «Non si sa mai. Una volta è durata una settimana.»

«Bella prospettiva.»

«Sì.» George si versò un altro po’ di brandy e poi, dopo un attimo di riflessione, aggiunse anche del ginger ale. «Siamo isolati da tre giorni. Dato che non sono ancora riusciti a sgombrare la strada, oggi avrei immaginato che mandassero un elicottero… a vedere se siamo sani e salvi, a lanciarci delle provviste, qualcosa del genere. Ma con questo nebbione non si arrischieranno.»

«No,» disse Selby. «Credo di no.»

Era esasperante pensarci. Bisognava comunicare un messaggio, mettere in guardia gli altri. E un elicottero avrebbe dovuto cercare i Deeping in modo assai più efficiente di un gruppo di gente appiedata. Comunque, prima o poi la nebbia doveva andarsene. E adesso loro erano sull’avviso, e stavano in guardia.

Mandy entrò nel bar. Aveva il volto arrossato dal calore della cucina, e una guancia macchiata di farina.

«George?»

«Sì, tesoro?»

«Peter.» George inarcò le sopracciglia. «Gli hai dato qualcosa da fare?»

«Qualcosa da fare? No. Perché?»

«Credevo fosse in cantina. Ma…»

Selby vide la faccia di George oscurarsi, sentì oscurare anche la propria. George disse sottovoce:

«Da quant’è che non lo vedi?»

VIII.

Dopo colazione, Elizabeth raggiunse Jane, che stava fumando una sigaretta dopo il caffè.

«Ah, è qui,» le disse. «Ho trovato un Monopoli, e ho pensato che dovremmo organizzare qualche partita.» Aggiunse, a titolo di spiegazione: «Soprattutto per Steve. un modo come un altro per far passare la mattinata.»

Jane annuì. «Sì, certo. Giocherò anch’io.»

Era tipico di Elizabeth, pensò, e cercò di infondere in quel pensiero una sincera ammirazione. Finché i bambini Deeping erano con i genitori, aveva badato a loro meno di tutti gli altri adulti: sembrava non notarli neppure e si limitava a dispensare loro qualche sorriso remoto e tollerante. Ma adesso che Stephen era rimasto solo, si occupava di lui con energia efficiente. Il bambino, dal canto suo, apprezzava quelle attenzioni e se ne mostrava lusingato. Elizabeth era sicura del proprio potere sui maschi, pensò Jane, a qualunque gruppo d’età appartenessero: e non era una sicurezza mal riposta.

Anche Diana giocò con loro, in salotto. Sembrava stanca, e sbadigliava di continuo. Jane faceva del suo meglio per reprimere l’irritazione. Detestava gli sbadigli incontrollati in pubblico, specie da parte di sua sorella: ma c’erano state quelle due nottatacce e alla sua età aveva bisogno di dormire molto. Alla fine le disse: «Se sei stanca, torna pure a letto.»

«Stanca?» replicò Diana. «Non sono stanca.»

«Ne hai l’aria.»

«Stavo solo sbadigliando.» Sbadigliò di nuovo, rumorosamente, e sorrise. «Tu devi essere stanca, invece. Sei così di cattivo umore. O forse invidi le mie proprietà. Steve, compro un’altra casa in Piccadilly, prima che ci arrivi Jane.»

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