Si fissarono. Il silenzio fu rotto da Douglas.
«A me non dispiace restare alzato.» Fece una pausa. «Potremmo lanciare una moneta. Oppure giocare ai dadi.»
George scoppiò a ridere, all’improvviso. «Non ho mai detto di no a un giro di dadi. Vado a prendere il bussolotto.»
Mentre George era fuori, Douglas sorseggiò il liquore, poi andò alla credenza per diluirlo.
«Pensa davvero che i Deeping siano un pericolo, Selby?» chiese. «Per gli altri, oltre che per noi?»
«Non so,» fece Selby. «Preferisco non sottovalutare le cose. Né i pericoli, né l’intelligenza altrui.»
«Crede che si tratti d’una specie di malattia?»
Selby scosse il capo. «Non lo so.»
George tornò, facendo tintinnare i dadi nel bussolotto di cuoio. Sembrava più allegro: anzi, sogghignava.
«Le signore credono che ci siamo sbronzati. Tranne Diana. Voleva venire qui. Tre giri?»
«Uno,» disse Selby. «Altrimenti resteremo alzati tutta notte. Assi in su e re a lato.»
Ognuno di loro lanciò un dado. Selby e Douglas tirarono un fante ciscuno, George un re. Prese il bussolotto, raccolse tutti i dadi, li agitò, rovesciò il bussolotto e, coprendolo con le mani, esaminò il suo punto. Poi passò il bussolotto a Selby, attraverso la tavola.
«Tre fanti.»
Sorrideva, con gli occhi intenti. Selby annuì, prese il bussolotto.
C’erano due fanti, con una donna, un dieci e un nove. Senza esitare, tirò fuori il nove e il dieci, e li lanciò.
Vennero un fante e una donna. Selby disse:
«Quattro e una donna.»
Douglas prese il bussolotto, guardò sotto, esitò, e mostrò i dadi. Lasciando i tre fanti sul tavolo, lanciò la donna, dentro al bussolotto.
George lo fissò. «Allora?»
Douglas guardò sotto al bussolotto. «Quattro fanti e un re.»
George alzò la mano. «Che jella.» C’erano una donna e un nove. George prese i dadi e li rimise nel bussolotto. Agitandolo, disse: «A noi due, Selby.»
Guardò, poi spinse il bussolotto attraverso la tavola.
«Minima.»
Teneva gli occhi fissi su Selby: questi batté le dita sul fondo del bussolotto rovesciato. Era stata un’occhiata rapidissima, ma non significava nulla: anche con dei dadi sbiaditi come quelli, George aveva gli occhi acuti e la sveltezza necessari per individuare senza esitazioni il risultato di un lancio. La precedente dichiarazione di tre fanti era stata di prelazione, e falsa, ma era riuscito a passarla a Douglas. Adesso che erano rimasti solo loro due, la situazione era più critica. E se lì c’era una scala minima, poteva fare una cosa sola: rimettere in gioco il nove nella speranza che uscisse un asso, e chiamare una scala massima. C’era una probabilità su cinque. E naturalmente, poteva darsi che la scala non ci fosse per niente.
Scoperchiò. Asso, re, donna, dieci, nove. Una scala buca.
«Peccato,» disse.
George annuì. «Era un rischio. Le lascio la bottiglia. Vada a prenderne un’altra al bar, se questa la finisce. Ho lasciato la chiave dentro.»
La bottiglia era piena per tre quarti. «Se la finisco,» disse Selby, «non ce la farò ad arrivare fino al bar.»
Quando gli altri furono andati a letto, Selby si versò dell’altro whisky, e fece rotolare pigramente i dadi sul tavolo. Tre assi. Un buon primo lancio. Pensò alla partita che avevano appena giocato e a George. Qualche volta, George faceva dichiarazioni preliminari false, specialmente nel gioco finale, ma non l’aveva mai sentito, prima, dichiarare una scala. C’era una sola spiegazione possibile: aveva fatto apposta, sapendo che Selby, a meno che giocasse con pazzesca leggerezza, avrebbe cercato di batterla. Aveva dichiarato per perdere. E poteva averlo fatto per un solo motivo. La paura. George, disperatamente, non voleva rimanere lì solo, ma l’orgoglio l’aveva spinto ad offrirsi. E i dadi gli avevano offerto il mezzo per cavarsi d’impaccio senza perdere la faccia.
In fondo era giusto. Le debolezze altrui si potevano riconoscere, ma senza troppa insistenza. Non c’era niente di male, purché non si facesse capire chiaramente ciò che si era scoperto. Selby era soddisfatto di non aver lasciato intendere a George quanto aveva capito, di averlo lasciato tornare a letto convinto di aver salvato l’onore.
Un lontano scricchiolio del legno gli ricordò perché si trovava lì. Aveva controllato la cantina, si era assicurato che la porte fosse sprangata, le finestre ben chiuse. In quel silenzio, lo spicinio di un vetro che si rompeva si sarebbe sentito chiaramente. Tuttavia, pensò, non si trovava nella postazione migliore. Avrebbe dovuto tener d’occhio le scale. Anzi, si disse, avrebbe potuto sedersi sulla scala, ma il bar, con la porta aperta, sarebbe stato un buon luogo per stare di vedetta, e molto più comodo. Prese il bicchiere, e poi, ripensandoci meglio, anche la bottiglia, e si avviò verso il bar.
Guardò fuori dalla finestra a doppi vetri. La luna era seminascosta dalle nubi. La luce era appena sufficiente per distinguere la linea del pendio, ma non c’era la possibilità di distinguere delle figure, a meno che venissero molto vicino. Ma quelli l’avrebbero fatto? Le loro facce oltre la finestra, supplichevoli, ad implorare che li facesse entrare. O forse avrebbero fatto smorfie orribili. Come una scena di un film dell’orrore. Selby sorseggiò il liquore e sorrise. Era ridicolo. I Deeping, due coniugi del ceto suburbano, con il figlio… era impossibile collegarli a una nozione d’orrore.
Eppure adesso erano là fuori, nella neve. Lì, all’esterno della finestra, era appeso un termometro. Selby portò la lampada e guardò, attraverso il vetro. Non poteva esserne sicuro, ma gli pareva che segnasse sei o sette sotto zero. Una coppia del ceto medio suburbano, e il figlio… E per il bambino, era la seconda notte all’addiaccio. Questo era già abbastanza orribile: sia pensare a un bambino normale che soffriva per il freddo atroce, sia ad un essere cambiato, insensibile a quella temperatura. Era un orrore assurdo, insensato.
E poi, pensò con tetro umorismo, c’era una specie di pena del contrappasso, per lui. Gli anni di disinvolta eterodossia, di blande beffe agli idoli della medicina, ai colleghi troppo zelanti, lo avevano lasciato ignorante e impotente quanto il medico più devotamente ortodosso. Forse ancora più impotente, perché non era in grado di difendersi da quella bizzarria, di trovare un rifugio nel compiacimento verso se stesso. Qualcosa aveva cambiato i Deeping, li aveva cambiati fisicamente e mentalmente: e quel qualcosa non esisteva nella sua filosofia, come non esisteva in quella del povero vecchio Orazio nell’ Amleto. Una malattia? Isterismo? Tanto valeva accettare i diavoli alpini di Marie. Era una teoria più ampia, e quindi più soddisfacente.
Un suono lo scosse: alzò di scatto la testa. Veniva dalle scale: ma dalla parte più alta della casa, non dalla cantina. Ebbe un istante di apprensione, sospettò che i Deeping fossero riusciti a passare a sua insaputa, che lassù tutti fossero cambiati, lasciandolo orribilmente solo: ma poi si scosse. Molto probabilmente era George, tenuto desto dalla coscienza, che scendeva ad assicurarsi se tutto era in ordine. Un altro suono. Sì, era qualcuno che scendeva. Ma non George. Un passo troppo leggero. Un paio di pantofoline, due caviglie bianche, una vestaglia di seta azzurra.
Lei scese la scala e, senza esitare, attraversò il corridoio e si diresse verso il bar. Era perfettamente truccata, notò Selby, con i capelli ben pettinati. Le chiese, sottovoce:
«Cosa c’è, Diana? Non riesce a dormire?»
«No.» La ragazza si appoggiò al bar e lo guardò. Parlava anche lei sottovoce: non un bisbiglio da cospiratrice, ma sommessamente. «Jane si è addormentata. Ma io ero inquieta. Ho pensato… crede che bere qualcosa mi aiuterà a dormire?»
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