John Christopher - I possessori

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Sfuggiti a una catastrofe cosmica i Possessori vagavano negli spazi siderali. Le spore erano state lanciate in tempo con la speranza che potessero ricreare su qualche pianeta remoto quelle creature quasi onnipotenti del cui seme erano portatrici. Le spore viaggiano.. e periscono.. nel gelo incommensurabile dei giganteschi pianeti esterni… ma alcune sopravvivono. Riposano tra i ghiacciai in attesa della vita. E sulla Terra, in Svizzera, uno strano contagio minaccia l’uomo. Pazzia, redivivi, strane cose succedono. Questa strana “presenza” deve essere distrutta!

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Selby rifletté per un momento, con aria seria.

«Non mi sorprenderebbe. Per nulla. Aspetti, le verso qualcosa.»

Dovette passarle accanto, per andare dietro al banco. Diana aveva un profumo che Selby aveva già sentito, ma non addosso a lei. Normalmente Diana usava un profumo leggero, da brava ragazza: questo era molto più pesante. Femme? Qualcosa del genere… lui non ricordava mai i nomi. E cosparso in abbondanza. Adesso era a una certa distanza da lei, ma il profumo era ancora forte.

«Cosa prende?» le chiese. «Io bevo whisky, ma George mi ha lasciato carte blanche. »

«Whisky: va benissimo.»

«Se porta qui il mio bicchiere, le terrò compagnia.»

In questo modo, tra loro due c’era il banco del bar. Non era tipico di Diana, pensò Selby mentre le versava il whisky, allungandolo con acqua. Era certo di non essersi ingannato sul suo conto: era seducibile, e lui sarebbe rimasto molto deluso se non fosse stato così. Ma non era una mangiatrice d’uomini. Eppure quella sua visita era inequivocabile. Non era solo questione del profumo, della pettinatura e del trucco così accurati. C’era una provocazione nei modi di lei: discreta, ma molto evidente. Gli sfiorò le dita quando lui le passò il bicchiere. La vestaglia copriva la camicia da notte. La scollatura a V era profonda, e mostrava un poco le curve bianche dei seni, l’inizio della valle in mezzo ad essi.

Selby respirò profondamente e alzò il bicchiere.

«Salute.»

«Salute,» disse Diana. «È strano essere svegli, quando tutti gli altri dormono, no?» Si guardò intorno. «E quella lampada… rende tutto ancora più strano…»

Non finì la frase. «… e romantico» pensò Selby: quello era sottinteso. No, non era il comportamento tipico di Diana. Magari lei avrebbe anche detto di no, se lui avesse preso al volo la battuta: ma era convinto che non l’avrebbe detto. Era l’atmosfera di tensione, probabilmente. Non si riteneva che certi pericoli facessero quell’effetto alle donne? Ma era inutile perdere tempo in ipotesi astratte. La situazione imponeva di agire: o almeno di parlare prontamente, per salvare tutto e tenere le porte aperte per il futuro.

«Sua sorella ha il sonno pesante?» chiese.

Diana abboccò all’amo. «Jane? Molto pesante.»

«Sì, l’avrei immaginato. Qualche volta, però, è facile ingannarsi sul conto della gente. Prenda Elizabeth. La notte è molto irrequieta… si sveglia continuamente. E se ne va in giro. Mi sorprende che non sia ancora capitata qui.»

Era una grossa bugia, ma era certo che Elizabeth l’avrebbe approvata. Guardò negli occhi la ragazza, per un lungo istante. Diana gli sorrise e scrollò lievemente le spalle. Accettata, pensò lui con sollievo. Il pericolo era passato.

Diana disse qualcosa a proposito dei Deeping, ma senza molto interesse, poi passò ad argomenti meno inquietanti. Il bello di andare in vacanza in quel periodo era che quando si tornava a casa si trovava la primavera già iniziata: gli alberi che mettevano le gemme, le giornate che si allungavano… L’ufficio dove lavorava lei era nei pressi del Marble Arch, e a lei piaceva attraversare a piedi il parco e prendere l’autobus per Knightsbridge. Quando non era carica degli acquisti fatti a mezzogiorno, cioè. Adesso comunque era più facile, perché avevano aperto un negozio di gastronomia vicino a casa sua, e restava aperto la sera e anche la domenica mattina.

Diana continuò a chiacchierare, e Selby l’ascoltò con piacere. Era una cosina graziosa e vivace, e lui avrebbe avuto il tempo e l’occasione di approfittarne. Per il momento, gli bastava avere la sua compagnia, ascoltare con scarsa attenzione ciò che diceva, pensare alle possibilità future e, nello stesso tempo, restarsene ben tranquillo nell’attuale virtù. Dove aveva intenzione di andare quell’estate? Era piacevole pensare all’estate.

«Mangiamo dei panini nel parco,» disse lei. «Oppure facciamo la coda, se è una serata in cui c’è un concerto di Beethoven.»

«I Prom?» chiese Selby. «Non avrei mai pensato che fosse una Prommer.»

Diana ribatté, lievemente indignata: «Questo sarà il quinto anno, per me.»

Selby ne fu entusiasta. «E fa la coda tutta la notte per l’ultimo concerto? E agita le bandiere per festeggiare Sir Malcolm Sargent?»

«Io non agito le bandiere. L’anno scorso, però, mi hanno scelta per offrirgli un mazzo di fiori.»

«L’avrei scommesso. Posso venire con lei, qualche volta, l’estate prossima? Non in una serata di Beethoven, però: sono troppo vecchio per fare la coda.»

«Ma stare in coda fa parte del divertimento. Si conosce tanta gente.» Poi lo guardò con aria seria. «Che genere di musica preferisce?»

«Tutti i generi, purché ci sia una grande orchestra con tanti strumenti ad arco. Persino Ciaikovski.»

«A me piace Ciaikovski!»

Diana era scattata con incantevole indignazione, sporgendosi verso di lui attraverso il bar, per dare maggior forza alle proprie parole. Irresistibile. Anche Selby si sporse e la baciò. Lei fu colta di sorpresa, poi sorrise, tenendo delicatamente la lingua tra i denti. Selby la baciò di nuovo, molto più a lungo, molto più efficientemente. Ma l’efficienza era molto limitata dalla barriera tra loro. La lasciò andare, con l’intenzione di rimediare. Quando si scostò, guardò la finestra, sopra la testa di Diana. Al di là del vetro, una faccia lo fissava.

Non era né supplichevole né minacciosa. Una faccia inespressiva, calma, attenta. Come un biologo marino che guarda oltre il vetro di un acquario. Ma quella era la faccia di un bambino di otto anni, e fuori la temperatura era di circa dieci gradi sotto zero.

«Hai finito il liquore,» disse a Diana. «Penso che adesso dovresti riuscire ad addormentarti.»

La ragazza parve leggermente delusa, ma la voce di lui aveva un tono deciso che accettò, senza protestare. La guardò salire le scale, prima di accostarsi alla finestra. Non si aspettava di trovare niente: la faccia si era abbassata, scomparendo, nel momento in cui lui l’aveva vista. E non c’era nulla… nulla tranne la notte e il lievissimo lucore della neve. Pensò all’ubicazione della finestra. Lì il terreno era in forte pendenza: il davanzale, all’esterno, doveva trovarsi a un metro e ottanta dal suolo. Perciò il bambino, presumibilmente, era stato issato sulle spalle del padre. Un gesto molto normale, molto umano. Selby rabbrividì.

Si versò dell’altro whisky e poi andò a fare il giro, controllando scrupolosamente porte e finestre.

La mattina dopo parlò a George e a Douglas dell’apparizione alla finestra anche se, naturalmente, non disse che in quel momento Diana era con lui.

«Non cercava di entrare?» chiese Douglas.

«No. Guardava soltanto.»

«Per vedere quel che stava facendo lei,» disse George. Selby gli lanciò un’occhiata tagliente, ma quell’osservazione non aveva doppi sensi. «Una ricognizione.»

«Qualcosa del genere.»

«Non si è vista traccia di loro, questa mattina?» chiese Douglas.

«No. Del resto, non si può vedere molto, adesso.»

Erano nel bar. Selby indicò la foresta. Fuori, la nebbia grigia turbinava nelle piccole correnti d’aria. La nebbia era scesa verso l’alba, o meglio era salita dal fondovalle, e si era addensata intorno allo chalet. La visibilità era di una decina di metri al massimo.

«Così ci si sente veramente isolati,» disse Douglas.

Nella sua voce c’era un disagio che rispecchiava, pensò Selby, lo stato d’animo di tutti. Avevano sperato che le loro ansie si acquietassero durante il giorno, alla vista dei pendii vuoti sotto il sole, dell’immutabilità rassicurante delle vette lontane. Invece erano circondati dalla nebbia che li isolava dal mondo più completamente dell’oscurità della notte. Di notte c’era la possibilità di vedere la luna, le stelle, le luci di St. Gingolph dall’altra parte del lago. Adesso non c’era altro da vedere che la nebbia, che ondeggiava, ribolliva freddamente, ma non cambiava mai. Era deprimente, snervante.

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