Bob Shaw - Autocombustione umana

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Autocombustione umana: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella cittadina americana di Whiteford una ragazza va in cucina a preparare il caffè lasciando il padre seduto nella sua poltrona. Quando ritorna dopo pochi minuti, la stanza è piena di fumo ma non c’è più incendio: ciò che è bruciato (dall’interno) e ridotto in finissima cenere, è soltanto suo padre. Si scopre allora che testimonianze più o meno credibili sul fenomeno del CUS (Combustione Umana Spontanea) si erano avute fin dall’antichità. E pochi giorni dopo, nella stessa cittadina — un secondo caso si verifica sotto gli occhi dello stesso scettico giornalista che sta indagando sul primo. L’“autocombustione umana” è ormai un fatto accertato. Resta solo da spiegare chi o che cosa “si nasconda” dietro il mostruoso fenomeno.

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Tutta la scena col suo sfondo di dirupi e pareti di crateri era spietatamente illuminata dall’abbacinante disco del sole che sfolgorava sull’orizzonte. Nel cielo, in basso, si distinguevano due puntolini ravvicinati che brillavano di luce biancazzurra. Nonostante l’enorme distanza il sistema Terra-Luna faceva parte integrante del quadro, non solo perché era la meta suprema di Jerome e di tutti i dorriniani, ma anche perché da là Belzor, il maligno superman, aveva sferrato il colpo mortale contro il protagonista del dramma. A Jerome parve di vederlo in qualche punto della bianca, desolata distesa antartica, magari chiuso in un sacco a pelo termico, con gli occhi fissi su Mercurio mentre scagliava i suoi poteri psichici a milioni e milioni di chilometri attraverso lo spazio…

Ancora immerso nei suoi pensieri, Jerome rimise a posto il pannello e scese il pendio. Tutto il corpo era diventato insensibile, non sentiva più le braccia né le gambe; era diventato un paio di occhi, un essere incorporeo che fluttuava su un paesaggio di sogno. Il ciottolo bianco che conteneva il Thrabben era proprio lì davanti, pareva che lo chiamasse. Si chinò a raccoglierlo e lo infilò nel taschino della coscia destra, continuando a camminare verso gli astronauti terrestri.

Questi stavano sollevando il corpo di Marmorc, e Jerome era solo a pochi passi da loro, quando uno dei due voltò la testa e lo vide. Lasciò andare Marmorc e arretrò spalancando la bocca, e nel silenzio del vuoto Jerome tardò a capire che stava urlando. L’altro si alzò di scatto e arretrò a sua volta protendendo le mani come per respingere l’intruso.

Jerome, intuendo quello che provavano, capì che vedendolo avevano provato il peggior shock che mai potessero immaginare. Avevano appena compiuto un viaggio di tre mesi arrivando su un pianeta sconosciuto, erano preoccupati per le condizioni del loro compagno, e se c’era una cosa che non avrebbe dovuto verificarsi era l’improvvisa comparsa di una figura umanoide chiusa in una tuta spaziale di modello mai visto. Jerome fece un passo indietro e alzò le mani per far capire che non era animato da cattive intenzioni, poi si accorse che cominciava a sentire il respiro affannoso dei due. La minuscola ricetrasmittente dorriniana inserita nel casco si era automaticamente sintonizzata sulla frequenza delle radio degli astronauti.

«Vengo dalla Terra» si affrettò a dire, ringraziando Dio perché le microcomunicazioni erano un campo in cui i dorriniani eccellevano. «Non abbiate paura. Sono come voi. Vengo dalla Terra.»

«Non è vero. Non ci credo» balbettò uno degli astronauti. «Stai lontano da me.»

«So di avervi spaventato e me ne scuso, ma, vi prego, statemi ad ascoltare.» Jerome tacque, conscio del difficile problema che doveva risolvere all’istante. «Sentite, parlo inglese e so anche come vi chiamate. Siete Hal Buxton e Carl Teinert… anche se non vi so distinguere. Calmatevi e pensateci un momento.»

Seguì un prolungato silenzio durante il quale i due rimasero a fissarlo sospettosi, e Jerome pregò che non fossero in grado, sconvolti com’erano, di afferrare in pieno il senso delle sue parole. Dicendo che sapeva come si chiamavano aveva implicitamente ammesso di sapere che il morto era Marmorc/Baumais.

«Va bene, ci abbiamo pensato» disse il più alto dei due. «E adesso dicci chi sei, cosa diavolo fai qui, e come ci sei arrivato.»

Tutto quello che gli era successo da quella remota mattina, quando, in tutta innocenza e ignoranza si era recato nella casa di Pitman, riemerse in un lampo nella mente di Jerome… strane immagini e concetti inconsueti, in un confuso caleidoscopio mentale. L’universo aspettava di sentirlo parlare.

«Mi chiamo Pavel Radanovik» disse con voce ferma. «Sono capitano dell’Aeronautica dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.»

Gli americani si scambiarono un’occhiata, poi scrutarono l’orizzonte. «Dov’è la tua nave?»

«Quello che ne resta giace in un burrone a circa venti chilometri da qui. Durante l’ultimo stadio della discesa si è verificato un guasto. I miei tre compagni sono morti nel disastro.»

«Mai sentito niente di così…» L’americano che si era assunto il compito di portavoce allargò le braccia e le riabbassò per dimostrare la sua incredulità. «E come sei arrivato fin qui?»

«A piedi, naturalmente» rispose Jerome. «Per fortuna ho recuperato qualche bombola di ossigeno, sufficiente a farmi arrivare qui… Poi ho aspettato che arrivaste.»

«Dove sono le bombole?»

«Le ho gettate via appena erano esaurite. Questa che porto è l’ultima. Siete arrivati appena in tempo.»

«Accidenti, è la più…»

«Ci stiamo dimenticando di Charlie» disse l’altro intervenendo per la prima volta. «Credo che sia morto, Hal. Ci aveva detto che stava per morire… e così è stato. Davvero strano.»

«A chi lo dici» replicò Buxton, continuando a fissare Jerome. Era perplesso, incerto e sospettoso e Jerome si rendeva perfettamente conto del motivo. Due eventi insoliti e inattesi si erano verificati contemporaneamente, e sebbene fosse evidentemente impossibile collegarli, una voce nella mente dell’astronauta, una voce persuasiva, gli diceva che un rapporto c’era. Jerome conosceva bene quella voce: era la stessa che gli aveva assicurato che c’era un legame fra i casi di autocombustione umana, e non voleva che Buxton continuasse ad ascoltarla.

«Non guardarmi a quel modo» disse, cercando di sembrare il più possibile sincero. «Che motivo avrei di mentirvi?»

11

La Terra, vista dagli oblò della Quicksilver , era più grande di come se l’era immaginata Jerome.

Si curvava davanti a lui da ogni parte in rotanti panorami bianco-azzurri che occupavano quasi metà del cielo, e la sua grandezza pareva accresciuta dall’incredibile quantità di particolari visibili. Il contorno del continente nordamericano, con tutte le sue associazioni con gli atlanti scolastici, attirava per ore l’attenzione di Jerome.

La sua nostalgia era andata sempre più aumentando durante i tre mesi del viaggio di ritorno, e adesso che la Quicksilver si trovava in orbita terrestre era in preda a una vera e propria crisi di astinenza tanto era la smania di riprendere la vita di un tempo. La ragione gli diceva che era impossibile — bastava solo il diverso aspetto fisico a impedirglielo — ma il cuore era più cocciuto della mente. Nei sogni e nel dormiveglia indugiava nella libreria di Whiteford, passeggiava per le strade conosciute, ripiantava il suo prato con la miglior erba nana importata, seguiva nel tempo libero i corsi di belle arti nel College Metodista ammantato d’edera…

Quand’era completamente sveglio invece stentava a credere che stava percorrendo l’ultimo tratto del percorso da Mercurio alla Terra.

Riandando ai tre mesi che aveva passato chiuso in una angusta cabina insieme ad altri due uomini, riusciva a riconoscere i fattori che avevano reso sopportabile il viaggio. Il principale era l’amicizia che era andata stabilendosi fra lui e i due americani, sebbene il loro rapporto — cosa naturale, del resto — non avrebbe potuto avere un inizio meno promettente.

Qualche attrito iniziale avrebbe potuto essere evitato se avesse potuto collaborare al seppellimento dell’uomo che loro conoscevano come Charles Baumais. Gli astronauti avevano impiegato più di due ore perché i loro messaggi radio venissero accettati da ognuno dei componenti il quartier generale della Corporazione Spacex in Florida, e poi si erano trovati di fronte a un dilemma personale quando era arrivata la prima inequivocabile istruzione riguardante Baumais: Lasciate perdere il cadavere e proseguite la vostra missione.

I controllori della missione, al sicuro nel loro ambiente familiare, non avevano capito la psicologia di quegli uomini, soli su un pianeta sconosciuto, il cui legame col resto dell’umanità era tenue e invisibile. Un compagno morto doveva essere sepolto, e con tutti gli onori del caso. Non si poteva fare altrimenti.

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