Jerome lo capiva ancora meglio di Buxton e Teinart, ma ormai era a corto di ossigeno e quindi era stato costretto a rifugiarsi a bordo. A questo punto gli astronauti si erano trovati a dover affrontare un altro problema connesso alle invincibili paure dei viaggi spaziali. L’avevano risolto sistemando Jerome sul sedile del compagno morto, e legandogli mani e piedi. Ma nonostante queste precauzioni continuavano a tenere d’occhio la nave mentre raccoglievano sassi ed erigevano un tumulo sul corpo di Baumais. Jerome sapeva cosa pensavano. Era virtualmente impossibile che lui si liberasse dai legami, e ancora più impossibile che pilotasse la Quicksilver da solo, ma lui era dentro alla nave, e loro fuori , e la Terra era lontanissima, e lo spazio uccide sempre, appena può.
Il puro simbolismo di assistere alla sepoltura sarebbe stato significativo. Per quanto la Quicksilver fosse molto più grande e manovrabile dei moduli scesi trent’anni prima sulla Luna, non avrebbe potuto riportare quattro uomini sulla Terra. Secondo il punto di vista di Buxton e Teinert — poiché la logica non c’entrava in circostanze come quella — la vita del loro compagno era stata scambiata con quella di un estraneo, e forse il loro astio si sarebbe un po’ attenuato se l’avessero visto partecipare alle estreme onoranze davanti alla tomba. Sulla Terra sarebbe stata una cosa di scarsa importanza, a cui forse non avrebbero fatto caso, ma lì a milioni di chilometri di distanza, era molto importante.
Altre difficoltà erano sorte in seguito alla sua improvvisa decisione di dichiararsi un cosmonauta sovietico. Non si era trattato di ideologie o di nazionalismo — la lontananza della Terra aveva un vantaggio rispetto a questo — ma della costrizione alla sua naturale sincerità. Avendo detto la bugia fondamentale, era stato obbligato a far di essa la pietra angolare di una complessa struttura di menzogne sulla sua infanzia in riva al Marc di Okhotsk, la sua famiglia, gli amici e la carriera militare. La sua eccezionale memoria per i particolari lo aveva aiutato a mantenere l’inganno. Buxton era di Tulsa e Teinart di un paesucolo dell’Idaho, e tutti e due amavano raccontare episodi della loro vita durante le lunghe veglie fra il decollo e l’arrivo. Le confidenze avevano cementato l’amicizia di quei tre uomini chiusi in un piccolo ambiente per tanto tempo, e il senso di colpa di Jerome era aumentato tutte le volte che inventava un particolare convincente del suo immaginario passato.
Guardando il convesso panorama della Terra che si stendeva sotto di lui, si chiedeva se avrebbe mai avuto l’opportunità di parlare in tutta franchezza ai due astronauti, e svelare qualcuno dei misteri che altrimenti li avrebbero tormentati per tutta la vita. Avevano passato, per esempio, ore ed ore a cercare una spiegazione plausibile per quanto era capitato a Baumais. Non si erano verificati sintomi fisici di malattia, ma verso la fine del volo Baumais era diventato sempre più teso e inquieto. Poi, mentre stavano scendendo sul Polo Nord di Mercurio aveva cominciato a delirare, sebbene non avesse febbre, e con qualche frase smozzicata aveva fatto capire che voleva vivere almeno per quei pochi minuti che lo separavano dal ritorno a “casa”. I suoi compagni erano rimasti allibiti nel rendersi conto di quanto fossero alterate le sue facoltà mentali e avevano deciso di propinargli un sedativo, ma Baumais li supplicava con tanta intensità che avevano preferito accontentarlo in quelli che erano realmente stati gli ultimi minuti della sua vita.
Jerome, custode di molti segreti, si era consolato pensando che se anche avesse potuto raccontare la verità su Baumais gli avrebbero creduto come avrebbero creduto alla verità circa l’anello di opale che portava alla sinistra.
Si era aspettato che gli sarebbe riuscito difficile se non impossibile aprire il finto sasso in cui era racchiuso il Thrabben, invece si era subito diviso in due appena l’aveva toccato lungo una fessura appena visibile. Galleggiando nella penombra della cabina, mentre gli altri due sonnecchiavano nelle reti protettive, Jerome era rimasto attonito e in preda a un reverente stupore alla vista dell’opale lenticolare in cui erano concentrati il passato e il futuro di un’intera razza. I puntolini multicolori della gemma brillavano come se fossero dotati di luce propria e sembrava che si muovessero e cambiassero a seconda dei movimenti dell’anello. Per un momento aveva pensato che quei puntini fossero i Kald dei Quattromila, che continuavano a vivere nel cosmo microminiaturizzato del gioiello; ma poi aveva capito che l’opale era soltanto un contenitore, che dentro di sé racchiudeva un nucleo di molecole uniche nel loro genere formanti un cristallo forse più piccolo di un granello di zucchero, ed era lì che ibernavano i Quattromila, in attesa di risorgere su un altro mondo.
Rimase a guardare l’anello per parecchi minuti con reverenza e timore, prima di avere il coraggio di estrarlo dalla nicchia incavata e infilarselo al dito. Aveva scelto istintivamente l’anulare sinistro, e la fascia di platino era scivolata senza difficoltà sulle nocche, ma arrivata alla base del dito il metallo si era mosso per un istante avvolgendosi intorno alla carne e sistemandovisi. Non stringeva, ma Jerome si guardò bene dal cercare di toglierlo. Infilando l’anello aveva contratto un impegno, aveva sottoscritto un singolare contratto che non aveva la facoltà di rompere.
Sotto un certo punto di vista aveva rinunciato alla sua condizione di terrestre, e tuttavia non si considerava un traditore. Come gli aveva fatto notare una volta Conforden, dorriniani e terrestri appartenevano alla stessa razza, ed era impensabile che dovessero essere condannati a una lenta estinzione sotto la superficie di Mercurio. Inoltre c’erano molte persone, come Birkett, Thwaite e Starzynski che meritavano di aver la possibilità di tornare a casa. Jerome aveva ancora molte riserve circa l’installazione di una nazione dorriniana sulla Terra, ma ammetteva che l’unico sistema pratico era un fait accompli.
Gli pareva ironico che la sua coscienza gli rimordesse tanto poco trattandosi di una cosa così importante, mentre nello stesso tempo si sentiva colpevole verso Buxton e Teinert riguardo a cose che al confronto avevano poca importanza. I due avevano la mania degli scherzi e dei giochi di parole, e ridevano per un nonnulla, specie quando lui fingeva di ignorare o di fraintendere cose che riguardavano l’America. Lui ricorreva spesso a questo trucco, per distrarli quando si trovava su un terreno pericoloso…
«Come mai» aveva detto una volta Buxton, «non sapevano che la Russia possedeva una nave interplanetaria capace di portare quattro uomini?»
«Si trattava di una questione di sicurezza nazionale. La ZR-12 aveva molti dispositivi militari. Nessun paese diffonde queste notizie.»
Buxton non era rimasto soddisfatto. «Perché avevano inviato un mezzo militare su Mercurio?»
«E cos’altro avremmo potuto inviare? Inoltre, se l’oggetto individuato su Mercurio era veramente il prodotto di una civiltà interstellare progredita, le cognizioni che se ne potevano ricavare sarebbero state utili in molti campi… compreso la difesa.»
Buxton aveva scrollato la testa, commentando:
«Credevo che Kripton esistesse solo nei fumetti.»
«Avete dei fumetti che parlano dei gas rari?» aveva ribattuto Jerome fingendo di ignorare che stessero parlando del pianeta natale di Superman.
Un’altra volta Buxton si era voltato dal pannello delle comunicazioni con un’espressione da cui si intuiva che s’era risvegliata in lui la primitiva diffidenza nei confronti di Jerome.
«Era Allbright che chiamava dal Capo» aveva detto. «Dice che i sovietici hanno negato di saperne qualcosa a proposito di una nave interplanetaria inviata su Mercurio.»
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