Bob Shaw - Autocombustione umana

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Autocombustione umana: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella cittadina americana di Whiteford una ragazza va in cucina a preparare il caffè lasciando il padre seduto nella sua poltrona. Quando ritorna dopo pochi minuti, la stanza è piena di fumo ma non c’è più incendio: ciò che è bruciato (dall’interno) e ridotto in finissima cenere, è soltanto suo padre. Si scopre allora che testimonianze più o meno credibili sul fenomeno del CUS (Combustione Umana Spontanea) si erano avute fin dall’antichità. E pochi giorni dopo, nella stessa cittadina — un secondo caso si verifica sotto gli occhi dello stesso scettico giornalista che sta indagando sul primo. L’“autocombustione umana” è ormai un fatto accertato. Resta solo da spiegare chi o che cosa “si nasconda” dietro il mostruoso fenomeno.

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«Sono imbarazzati» aveva subito replicato Jerome. «La prima reazione consiste sempre nel negare tutto.»

«Negano anche di conoscere te.»

«E come potrebbero dire di conoscermi quando negano di aver inviato una nave su Mercurio? Ma poi si rimangeranno quello che hanno detto, e a poco a poco verrà fuori tutta la storia.»

«Sai» si era intromesso Teinert, «parli davvero molto bene l’inglese.»

«Gentile da parte tua.»

«Non hai l’accento russo.»

Jerome aveva risposto con un sorriso imbarazzato: «Chi viene da un posto remoto come Okhotsk parla un russo che non pare neanche russo.»

Una volta, mentre parlavano del mistero dell’esca, Buxton aveva detto: «Pavel, mentre ci aspettavi avevi guardato bene quell’ammasso di metallo?»

«Non molto» aveva risposto Jerome. «Ero troppo preoccupato per la mia vita.»

«Pareva… nuovo, direi, e poi era morbido. Siamo riusciti a strapparne alcuni pezzi… pareva tutto di cartone. È difficile immaginare che quella roba facesse parte di un’astronave.»

«Davvero sconcertante.»

«A chi lo dici! Tu cosa ne pensi?»

«È una materia che non rientra nel mio campo.»

«Qual era la tua specialità.»

«Spiacente» aveva risposto Jerome, temendo che una risposta precisa lo avrebbe portato in un ginepraio di nozioni tecniche. «Non ho la facoltà di divulgare questa informazione.»

Questa era la formula a cui era ricorso tutte le volte che le sue conoscenze in materia di geografia, politica, o scienza spaziale russe erano risultate troppo scarse perché lui potesse rispondere adeguatamente. Man mano che continuava il viaggio e la TASS insisteva nello smentire le dichiarazioni di Jerome, questi aveva temuto che il suo atteggiamento potesse provocare diffidenza e tensione, ma con suo gran sollievo j due astronauti la presero in ridere.

«Non ho la facoltà di divulgare questa informazione» era diventata la risposta d’obbligo a tutte le domande relative al sesso, e all’ora o alla richiesta di dove fosse andata a finire una matita.

Un’altra fonte di divertimento per Buxton e Teinert erano la statura e la magrezza di Jerome, e la scarsa energia fisica che dimostrava durante gli esercizi di ginnastica agli attrezzi. Quando aveva mosso i primi passi nel Recinto, Jerome aveva calcolato di essere di qualche centimetro più alto che non nella precedente incarnazione. Non avendo termini di paragone, e vivendo in mezzo ai dorriniani, tutti alti e magri, gli era sembrato di aver fatto una valutazione esatta. Tuttavia faceva parte dei compiti degli astronauti controllare regolarmente l’altezza e trascrivere i relativi dati per valutarne l’aumento in assenza di gravità, e fu così che Jerome scoprì di essere alto più di due metri.

«Devi esser rimasto un bel pezzo su quell’inferno, Pavel» aveva commentato Teinert. «Avevi perso la strada?»

Jerome era stato allo scherzo rispondendo che era un nano quando aveva iniziato l’addestramento astronautico, ma in realtà la sua debolezza lo preoccupava. La struttura fisica dei dorriniani era il frutto di una forza di gravità pari solo a quattro decimi di quella terrestre, il che voleva dire che il suo peso naturale sarebbe più che raddoppiato quando avrebbe rimesso piede sul suo pianeta natale. Quanto gli sarebbe stato difficile camminare e anche reggersi in piedi? E il cuore? Sarebbe riuscito ad adattarsi a una forza di gravità superiore?

Queste domande si aggiungevano al già impenetrabile schermo che celava il suo avvenire. Per tutta la vita era sempre riuscito a fare ragionevoli supposizioni circa quello che poteva succedere nell’immediato futuro, e se anche talora aveva sbagliato non era accaduto abbastanza spesso da distruggere la sua illusione di poter controllare gli eventi, di seguire una rotta prestabilita. Adesso invece non poteva prevedere al di là di qualche ora e la strada si perdeva in una nebbia d’incertezze.

Alle sue apprensioni sulla reazione del mondo a quella che avrebbe potuto essere considerata una invasione dorriniana, si erano aggiunte nuove preoccupazioni quando aveva deciso di portare a destinazione il Thrabben… e soprattutto lo preoccupava la minacciosa figura di Belzor.

Presumendo che il Principe fosse riuscito a sfuggire agli agenti dorriniani nell’Antartide, e l’istinto gli diceva che così era stato, quale sarebbe stata la prossima mossa dell’imprevedibile superessere? La versione secondo cui la Quicksilver aveva raccolto un astronauta sovietico naufragato su Mercurio non l’aveva certo ingannato per un solo istante. Belzor doveva aver capito subito che si trattava o di un dorriniano o di un terrestre trapiantato evaso per tornare sulla Terra, e avrebbe certo preso in considerazione che anche il Thrabben fosse a bordo. Jerome conosceva Belzor abbastanza bene per sapere che non avrebbe esitato a uccidere tutti gli uomini della Quicksilver solo per precauzione. C’era forse da stupirsi che non avesse sferrato un attacco telepatico come quello che aveva ucciso Marmorc, ma erano molti gli aspetti della telepatia che Jerome ignorava.

Ripensando a quello che era successo, e avendo provato di persona quanto fosse potente la mente di un supertelepate, si era reso conto che i Guardiani avrebbero potuto impedirgli la fuga senza difficoltà. Poiché si erano trattenuti dal farlo, non gli restava che presumere che i Guardiani sapevano come si sarebbe comportato ancora prima di lui, e per qualche loro motivo non avevano ostacolato la sua decisione. Lo consolava un po’ il pensiero che dovevano avere analizzato anche le possibili reazioni di Belzor e non avrebbero permesso a lui di portare a bordo il Thrabben se non fossero stati sicuri che avrebbe raggiunto sano e salvo la Terra. Forse, che strana idea!, solo i supertelepati erano vulnerabili agli attacchi psichici su distanza interplanetaria. Forse Belzor, come un insetto velenoso che può pungere una sola volta, aveva sacrificato una parte vitale di sé in quell’omicidio trascendentale, e adesso non era più in grado di rifare la stessa cosa. O, per essere più consono allo stile pragmatico terrestre, Belzor non vedeva il motivo di sferrare un colpo a distanza contro un bersaglio in avvicinamento…

«Vedo una navetta» avvertì Teinert dal capo opposto della cabina. «Vengono a prenderti, Pavel. Cosa te ne pare?»

«Magnifico!» Jerome cambiò posizione in modo da poter vedere il puntino luminoso a forma di cuneo appena visibile sull’immenso sfondo rotante della Terra. Quel che non poteva vedere era la stazione spaziale NASA Reagan I , che stava in quel momento scivolando davanti alla Quicksilver di cui seguiva la stessa orbita, come una perla su un filo invisibile.

Durante gli ultimi giorni c’era stata molta attività ad alto livello, e come risultato di innumerevoli incontri politici e militari era stato deciso che l’indispensabile visita di Jerome alla stazione fosse il più breve possibile. Buxton e Teinert avrebbero passato parecchi giorni sulla stazione, per essere sottoposti a interrogatori preliminari sulla missione, ma la controversia “naufrago russo — o non russo” doveva essere risolta in pochi minuti, molto probabilmente per motivi di sicurezza. La stazione, nominalmente destinata a ricerche, aveva notoriamente una grande importanza strategica per i militari.

«A quanto pare tornerai presto a casa» disse con voluta indifferenza Buxton.

«Già.» Jerome lo conosceva ormai abbastanza da notare la leggera enfasi con cui aveva pronunciato l’ultima parola. Era un’allusione indiretta al fatto che l’Unione Sovietica continuava a negare categoricamente di conoscerlo. Per non guastare i loro rapporti, i due avevano tacitamente accantonato la questione delle origini di Jerome dopo i primi giorni. Ma ormai il lungo viaggio stava per finire e i dubbi mai sopiti si risvegliavano insieme al bisogno di sapere.

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