«Forse ci manderai una cartolina» disse Teinert. «Posto che ne esistano a Okhotsk.»
Jerome sentiva che l’atmosfera era cambiata. «Sentite» disse in tono quasi supplichevole «a volte si è costretti a comportarsi contro la propria volontà.»
Buxton sogghignò. «Lo sappiamo… e tu non hai la facoltà di divulgare informazioni.»
«Non intendevo questo.»
«Scusami» disse Buxton, e pareva sincero. «Cosa pensi che ti succederà quando sarai laggiù?»
«Questa è un’ottima domanda» rispose Jerome con gli occhi fissi sulla navetta che si stava avvicinando. «Davvero un’ottima domanda.»
«Salve» disse il funzionario governativo infilandosi nel sedile accanto a Jerome. «Mi chiamo Dexter Simm, e la prima cosa che farò sarà rilevarvi le impronte digitali. Sono sicuro che non avrete niente da obiettare, ma anche in caso contrario le rileverò ugualmente e, se necessario, dirò a questi signori di immobilizzarvi mentre lo faccio.»
Così dicendo, Simm indicò con un cenno due impassibili giovanotti seduti nell’estremità anteriore dello scompartimento passeggeri della navetta. I due indossavano abiti vistosi che erano stati scelti per passare inosservati, e davano a Jerome l’impressione di essere molto abili nel soggiogare fisicamente le persone.
«Non ho niente in contrario» disse con noncuranza porgendo le mani a Simm. «Ma è così che accogliete gli ospiti russi?»
«Russo un corno! Non so di dove siate, slunghignone, ma non venite certo dalla Russia.»
Senza por tempo in mezzo, Simm premette i polpastrelli di Jerome su una striscia di plastica che poi chiuse in una scatola piatta nera. Uno dei due scagnozzi si alzò e risalì la corsia barcollando goffamente a causa della mancanza di gravità. Prese la scatola dalle mani di Simm, tornò sui suoi passi e scomparve dietro il divisorio che isolava la cabina di comando.
Jerome pensò che le sue impronte sarebbero state controllate in tutto il mondo con i computer prima che la navetta entrasse nell’atmosfera, e provò un senso di perversa soddisfazione. Se c’era qualcosa che gli inquirenti non sarebbero riusciti a trovare erano le impronte di un dorriniano negli archivi terrestri.
«Bello quest’anello.» Simm cercò di toccare il gioiello che Jerome portava all’anulare della sinistra, e alzò gli occhi divertito e sorpreso quando Jerome ritrasse la mano. «Perché siete così nervoso?» gli chiese.
«E voi perché siete così ostile?» ritorse Jerome. «Per qualcosa che ho detto?»
«Anche per questo.» Simm guardò Jerome con aperta antipatia. Calvo, sulla cinquantina, con le spalle larghe, aveva una corporatura robusta nonostante gli strati di adipe che anni di lavoro sedentario gli avevano accumulato addosso. La faccia era quella di un duro, astuto ma privo di fantasia, intelligente ma incolto.
«Ho avuto l’incarico di studiare tutto quello che avete detto in questi tre mesi» disse «e vi assicuro di non aver mai visto un tale mucchio di…» S’interruppe al suono di un campanello che annunciava che la navetta si era staccata dalla stazione. Poco dopo si aggrappò ai braccioli del sedile, spaventato, perché la navetta aveva fatto un improvviso balzo in avanti e l’oscurità che entrava dagli oblò lungo un lato del compartimento aveva ceduto il posto alla luce abbagliante del sole. I motori rombavano a intervalli, facendo vibrare le paratie e i pannelli del soffitto. Jerome, reduce da un viaggio di tre mesi nello spazio, rimase impassibile, ma la faccia di Simm aveva assunto un colorito grigiastro e un velo di sudore gli imperlava il labbro.
«E avete il coraggio di chiedermi perché sono ostile?» disse, decidendo di sublimare la paura con l’ira. «Ma guardatemi! Non dovrei trovarmi qui in questa tinozza di alluminio a giocare allo spaziale. Sapete che abbiamo dovuto allestire una sezione spaziale solo per voi? Nessuno riesce a decidere se costituite un problema per l’immigrazione, per la NASA, per la CIA o per il KGB… Be’, no, abbiamo fatto presto a eliminare il collegamento coi russi. Come dicevo prima, voi non siete russo.»
«Non ho mai asserito di essere un vero russo» protestò Jerome. «L’Estrema Regione Orientale non è…»
«Non spaccate un capello in quattro! Non sono dell’umore adatto.»
Jerome si era troppo preoccupato per quello che lo aspettava al ritorno per aver pensato che all’arrivo diverse Agenzie americane avrebbero reagito alle sue dichiarazioni. L’unica cosa che riusciva a prevedere nell’immediato avvenire era che i supertelepati dorriniani sarebbero riusciti a raggiungerlo, ovunque fosse, ma cosa ne sarebbe stato di lui dopo aver consegnato il Thrabben? I dorriniani l’avrebbero lasciato libero o l’avrebbero lasciato in mano agli inquisitori fino all’inimmaginabile momento quando il Grande Segreto non sarebbe più stato segreto?
«Se tutti sono convinti che io sia un impostore» disse per prender tempo, «perché hanno permesso che la Quicksilver mi riportasse sulla Teira?»
«Perché sarete una miniera di informazioni. Forse non lo credete, ma spiattellerete tutto su come eravate arrivato su Mercurio. Tutto, dall’A alla Z. Direte il nome della nazione che vi ha mandato, e…» Simm s’interruppe. Pareva più a suo agio, e per qualche istante indugiò a guardare il biancore fosforescente della stazione spaziale che si muoveva al di sopra e davanti alla navetta in discesa. «Inoltre non sarebbe stato gentile piantarvi lassù, specialmente dopo che Chuck Baumais aveva avuto la cortesia di lasciarvi il suo posto.»
Ci risiamo , pensò Jerome. Quando la logica ha paura, sopravviene l’istinto. Fa parte della nostra natura cercare rapporti. Ne abbiamo bisogno…
«Mi dispiace per Baumais» disse. «Non credo però che sia stata una consolazione per voi sapere che la sua morte ha permesso a un altro di sopravvivere.»
«Non molto» ammise freddamente Simm. «Sapete che siete un bel pasticcio?» Lo guardò con aria critica. «Questi sono gli unici abiti che avete? A parte quella tuta da cartoni animati, naturalmente.»
Jerome, che finora non ci aveva fatto caso, si accorse di colpo che doveva costituire uno strano spettacolo agli occhi dei terrestri. Camicia e calzoni dorriniani erano riposti in una sacca insieme alla tuta che aveva indosso quando era fuggito dal tunnel. A bordo della Quicksilver gli avevano dato la tuta di plastica di riserva che lui aveva dovuto dividere in due parti all’altezza della vita altrimenti sarebbe risultata troppo corta. Il risultato era un due pezzi coi calzoni e il camiciotto troppo corti, completato da un paio di calzini grigi, sue uniche calzature. Tutto si poteva dire fuorché fosse elegante.
«Capisco cosa volete dire» rispose. «Ma credo che vadano bene in Florida, in gennaio.»
«Non andiamo al Capo.»
«Perché no?»
«Troppi cronisti, troppa gente. Così andiamo in una base dell’aeronautica nel Nord Dakota.»
«Capisco» disse Jerome, chiedendosi se sarebbe stato difficile per i dorriniani raggiungerlo in quella località. «Avreste potuto scegliere un posto più caldo.»
«Credevo che voi russi foste abituati al freddo» replicò Simm con un sorriso malevolo.
Jerome non disse altro, deciso a parlare il meno possibile per il resto della discesa. Prima di quanto avesse previsto, la navetta si tuffò negli strati superiori dell’atmosfera e il cielo visibile attraverso gli oblò diventò azzurro. Nel giro di dieci minuti l’attrito dell’aria sullo scafo diventò percettibile e la navetta, mutando le caratteristiche di missile balistico in quelle di aeroplano, cominciò a rivelare un carattere meccanico suo proprio che espresse a tratti con sbalzi improvvisi, sussulti e colpi di coda.
A quanto Jerome poté giudicare da quel po’ che riusciva a vedere di sfuggita, gran parte del Canada centrale e degli USA erano coperti da una coltre di nubi. La prospettiva di una discesa in picchiata in condizioni atmosferiche avverse lo indusse a stringere l’imbracatura di sicurezza, e mentre affibbiava le cinghie si accorse che le sue braccia pesavano come piombo. Cercò di non pensare ai problemi che gli avrebbe causato la gravità terrestre, sperando di esser stato eccessivamente pessimista circa la sua capacità di compensazione, ma il senso di peso era uno sgradevole assaggio di quello che lo aspettava di li a poco.
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