Bob Shaw - Autocombustione umana

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Autocombustione umana: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella cittadina americana di Whiteford una ragazza va in cucina a preparare il caffè lasciando il padre seduto nella sua poltrona. Quando ritorna dopo pochi minuti, la stanza è piena di fumo ma non c’è più incendio: ciò che è bruciato (dall’interno) e ridotto in finissima cenere, è soltanto suo padre. Si scopre allora che testimonianze più o meno credibili sul fenomeno del CUS (Combustione Umana Spontanea) si erano avute fin dall’antichità. E pochi giorni dopo, nella stessa cittadina — un secondo caso si verifica sotto gli occhi dello stesso scettico giornalista che sta indagando sul primo. L’“autocombustione umana” è ormai un fatto accertato. Resta solo da spiegare chi o che cosa “si nasconda” dietro il mostruoso fenomeno.

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Per più di un giorno non ci fu altro da fare che attendere, osservare e pensare… e fu una giornata ancora più strana del solito.

Essendosi adattato al nuovo ambiente e a un altro corpo, Jerome aveva creduto che non sarebbe stato più capace di meravigliarsi di niente, ma quella giornata fu un distillato di stranezze, la somma e il culmine di tutti gli aspetti più singolari della sua nuova esistenza.

Dal punto dove si trovava, seduto su una sedia portatile, poteva vedere alla sua sinistra le figure enigmatiche chiuse nelle tute pressurizzate dei sei Guardiani che avevano trasportato il Thrabben lungo il tunnel per poi collocarlo sulla superficie priva di aria del pianeta. Fra loro c’era Pirt Conforden, ma nella penombra dell’ampia sala in cui sfociava il tunnel era impossibile distinguerlo dagli altri.

Alla destra di Jerome c’erano sei tecnici addetti al tunnel, fra i quali Mallat Glevdane, che era stato responsabile dell’apertura e chiusura dei portelli stagni lungo gli otto chilometri del percorso da Cuthranel. Stavano seduti accanto ai piccoli veicoli elettrici che avevano trasportato tutti e che contenevano anche le provviste.

La conversazione era limitata a brevi bisbigli. Tutti gli occhi erano fissi sul grande schermo appeso a una parete della sala, su cui campeggiava l’immagine della superficie di Mercurio, riprodotta così perfettamente, che a volte Jerome aveva l’impressione di guardare attraverso una finestra panoramica. Era una veduta in profondità di una pianura rocciosa, chiusa da contrafforti frastagliati e illuminata dagli infuocati raggi orizzontali di un frammento di abbagliante luminosità sull’orizzonte. Nel cielo nero brillavano le stelle, più numerose di quante non se ne vedevano a maggior distanza dal Sole.

Jerome sapeva che quel paesaggio esisteva realmente dieci metri sopra di lui, ma non era ancora riuscito a scoprire come era stato riprodotto. Sapeva che non c’entravano né la televisione né le convenzionali tecniche fotografiche, e supponeva che gli ingegneri psichici dorriniani avessero trovato il modo di far sì che le molecole dello schermo reagissero in concordanza con quelle della superficie. La “camera” forse consisteva semplicemente in un percorso sulla superficie rocciosa collegato allo schermo grazie a una specie di telepatia inorganica. Era impossibile individuarlo e costituiva un esempio perfetto di quello che erano in grado di fare i più dotati fra i supertelepati.

Chiaramente visibili al centro dello schermo, spiccavano le curve metalliche dell’esca, l’enorme lastra che raffigurava il relitto di una nave stellare. Era stata portata in superficie quattro anni prima, divisa in blocchi e montata da operai che poi, con getti di gas, avevano cancellato le loro impronte.

Al centro, in basso, c’era il Thrabben, il più complesso manufatto mai creato da esseri umani, il gioiello vivente che aveva modellato per più di tre millenni la storia di due mondi.

Jerome, che aveva sperato di vederlo, era rimasto deluso scoprendo che era incastonato in una chiusura protettiva simile a un sasso delle dimensioni di una pallina da golf. Anche se gli altri astronauti avessero visto Mamorc raccoglierlo, l’avrebbero scambiato per un campione di roccia, e lui avrebbe avuto il tempo, in seguito, di estrarne il Thrabben. Il finto sasso spiccava come un punto bianco posto a uguale distanza fra due massi che somigliavano a teschi umani. Probabilmente Marmorc aveva studiato quel piccolo tratto di terreno, prima del suo trasferimento sulla Terra, e conservandone il ricordo durante gli anni di addestramento come astronauta, anche se, come supertelepate poteva venire diretto verso il Thrabben dai Guardiani che fissavano lo schermo.

Non avendo meditato molto su questo argomento, Jerome era rimasto sorpreso, quando, dopo che due dei Guardiani avevano sistemato il Thrabben, tutto il gruppo era rimasto nella sala a guardarlo anche se la Quicksilver sarebbe arrivata solo dopo due giorni. Da quel poco che sapeva sul conto dei Guardiani, gli era parso naturale che se ne stessero isolati e in disparte, ma si era stupito non poco allorché i tecnici con i quali aveva lavorato a contatto di gomito, lo avevano isolato dal loro gruppo. Solo dopo qualche ora di veglia, avendo avuto il tempo di pensare e di assorbirne i lati emotivi, capì finalmente che quella era una cerimonia religiosa.

Il tetro ambiente alieno, le disumanizzanti tute, il pulsare sommesso delle macchine, l’odor di gomma dell’ossigeno artificiale, gli avevano fino a quel momento impedito di rendersi conto che, per i dorriniani, quel luogo era Betlemme. E la Mecca. E Teotihuacàn. E Buddh Gaya. Seduto in disparte nella cavernosa penombra, osservando i Guardiani, venne fatto di pensare a Jerome che nessuna religione terrestre avrebbe potuto offrire ai suoi devoti un’esperienza di tale intensità. Trentacinque secoli di sforzi e sofferenze si erano concentrati su quell’evento, una piramide rovesciata inconcepibilmente massiccia di tempo posata su un unico punto… e non era garantito che quel punto potesse sostenerne il peso. Le classiche religioni terrestri offrivano certezza, offrivano una garanzia comune a tutti, qui invece il momento più sacro della vita dorriniana era oscurato dallo spaventevole elemento del caso.

Jerome stava osservando la mossa decisiva. L’anima collettiva dorriniana, incapsulata in una gemma, stava esposta sulla pianura sconvolta dalle meteoriti in attesa di essere trasportata in Paradiso, sulla Terra. Ma nessun corriere divino ne avrebbe assicurato la salvezza. Al suo posto, una nave spaziale complessa e relativamente primitiva avrebbe viaggiato nel vuoto sotto il fallibile controllo di alcuni uomini e delle loro macchine. Il guasto di uno solo dei diecimila componenti fabbricati ovunque, da Seattle a Milano, a Nagasaki, avrebbe potuto porre fine in qualsiasi momento alla missione, chiudendo così per sempre le porte del futuro a una intera razza. Mentre un cristiano riponeva la sua fede nella Croce, a un dorriniano si richiedeva di confidare che nessun circuito microscopico riportasse una submicroscopica lesione, che nessuna saldatura dello scafo fosse difettosa.

Cosa faranno se qualcosa non dovesse funzionare? pensò Jerome. Ci pensò sopra un poco, e, sentendo aumentare sempre più la stanchezza, lasciò perdere, come aveva smesso di cercare la soluzione di tanti altri problemi che lo tormentavano. Non riusciva a immaginare lo svolgersi degli eventi che avrebbero avuto luogo se la missione fosse riuscita. Chiuse gli occhi, per estraniarsi da quanto lo circondava, e si lasciò andare alla deriva, meravigliandosi di pensare al sonno quando era in gioco il destino di due mondi…

Non vi fu alcun rumore allarmante, ma la sensazione era inconfondibile.

Jerome aprì di colpo gli occhi, reagendo al turbamento psichico, e si guardò intorno. L’istinto lo spinse a centrare l’attenzione sull’immagine panoramica sullo schermo, ma questa era immobile e immutabile come sempre. Poi si accorse che uno dei Guardiani aveva attraversato la sala e confabulava coi tecnici del tunnel. Jerome intuì che si trattava di Conforden, che fungeva da collegamento fra i Guardiani e gli altri dorriniani. In apparenza non c’era niente di allarmante in questo, ma la sensazione persisteva. Quando la conversazione finì e Conforden stava tornando al suo posto, si alzò e lo fermò.

«È maleducato appartarsi a parlottare in presenza d’altri» disse. «Mi avevate assicurato che su Dorrin non ci sono segreti.»

«Credevo che dormiste» rispose Conforden.

«Riposavo gli occhi. È successo qualcosa?»

Conforden ci pensò sopra un momento, prima di rispondere: «Abbiamo appena captato alcune trasmissioni dalla Terra. La Quicksilver ha riferito che Baumanis è malato.»

«Non sapevo che ascoltaste la radio.»

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