Bob Shaw - Autocombustione umana

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Autocombustione umana: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella cittadina americana di Whiteford una ragazza va in cucina a preparare il caffè lasciando il padre seduto nella sua poltrona. Quando ritorna dopo pochi minuti, la stanza è piena di fumo ma non c’è più incendio: ciò che è bruciato (dall’interno) e ridotto in finissima cenere, è soltanto suo padre. Si scopre allora che testimonianze più o meno credibili sul fenomeno del CUS (Combustione Umana Spontanea) si erano avute fin dall’antichità. E pochi giorni dopo, nella stessa cittadina — un secondo caso si verifica sotto gli occhi dello stesso scettico giornalista che sta indagando sul primo. L’“autocombustione umana” è ormai un fatto accertato. Resta solo da spiegare chi o che cosa “si nasconda” dietro il mostruoso fenomeno.

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«Dove siete, Glevdane?» gridò in preda al panico. «Abbiamo bisogno di aria, qui!»

Sfibbiò la cintura degli utensili e, lavorando con difficoltà per via dei guantoni, la legò sul braccio sinistro di Birkett nel tentativo di impedire all’ossigeno, che la bombola continuava a erogare, di sfuggire attraverso la scucitura. Ma la cintura era fatta di una plastica scivolosa difficile da annodare. Si guardò intorno disperato finché non notò un pezzo di mastice grosso come un pugno ancora attaccato alla scheggia. Continuando a imprecare, l’afferrò e spalmò il mastice sulla scucitura premendolo con ambo le mani. Era ormai quasi certo che la tuta di Birkett era di nuovo a tenuta stagna e che non sussistevano dubbi su una rapida reintegrazione dell’ossigeno, ma aveva il sinistro sospetto che il pericolo consistesse adesso nella totale mancanza di pressione atmosferica. Cosa succede al corpo umano quando non esiste pressione esterna?

La paura di Jerome e la convinzione di essere impotente in quei frangenti erano aggravate perché sapeva di essere ignorante in materia. Le cellule del corpo di Birkett stavano già spaccandosi? Il sangue cominciava a bollire?

Dio mio , pregò atterrito, non far sì che debba assistere per la seconda volta alla morte di quest’uomo!

Tenne lo sguardo fisso sul portello del Compartimento 17, quasi a imporgli di aprirsi, o almeno nella speranza che qualche indizio mostrasse che stava tornando l’aria in quella sezione del tunnel. I dorriniani avevano una paura patologica del vuoto e lui temeva che avrebbero reagito con lentezza a una situazione che richiedeva l’apertura dei portelli stagni, ma stavano dimostrandosi ancora più lenti di quanto pensasse. Passavano i minuti e non arrivavano soccorsi.

Forse non verrà nessuno! Era una supposizione assurda, perché prima o poi gli altri dovevano tornare, ma in quel momento Jerome era in uno stato d’animo tale per cui guardò con ansia quanto ossigeno gli restava ancora. Ce n’era per circa trenta mirds, più o meno un’ora terrestre, quindi non aveva motivo di temere per la propria vita. Tuttavia non riusciva a tranquillizzarsi.

A Whiteford, una mattina ormai lontana, aveva preso una decisione che sembrava poco importante — visitare la casa di Starzinsky — e invece quella si era rivelata l’azione più disgraziata della sua vita. Sarebbe stato un logico corollario degli eventi che si erano succeduti da quel giorno se adesso fosse morto in seguito a uno stupido incidente proprio nel tunnel da cui dipendeva la speranza di tornare sulla Terra. Il fatto che la Quicksilver doveva atterrare fra solo ventidue giorni e a poche centinaia di metri dal punto dove lui si trovava adesso, sembrava l’ultimo e più appropriato tocco…

Una grinza sul braccio della sua tuta gli rivelò che finalmente stavano pompando aria in quella sezione del tunnel.

La stava fissando da alcuni secondi, trattenendo un sospiro di sollievo, quando gli venne in mente che la sua improvvisata riparazione alla tuta privava adesso Birkett dell’aria. Lasciò la presa, e, con le dita impiastricciate di mastice, aprì il visore del casco di Birkett mentre l’aria entrava adesso con un rombo dalle valvole del Compartimento n. La tuta di Birkett si gonfiò in pochi attimi, e poco dopo lui cominciò a muovere braccia e gambe. Aprì gli occhi e guardò Jerome con lo sguardo limpido e innocente di un bambino.

«Sammy» balbettò Jerome. «Stai bene?»

«Credevo che il dottor Bob fosse mio amico» bisbigliò Birkett. «Non doveva ingannarmi… non avrebbe dovuto farmi questo… non doveva… »

«Invece sono convinto che ti era amico» disse Jerome, più preoccupato di rassicurarlo che non di difendere Pitman. «Sono sicuro che ti voleva aiutare.»

«Ma io sono un giardiniere. Signor Jerome, siete davvero sicuro che siamo da qualche parte su in cielo? Su Marte o un posto del genere?»

«Temo proprio che ci troviamo su Mercurio» rispose Jerome, e intuendo quanto fosse confuso quel poveretto, provò una gran compassione. Aveva tanto sofferto per quanto gli era successo, ma almeno lui aveva avuto la consolazione di essere in grado di capire, di sapere esattamente dove si trovava. Non gli era mai passato per la mente che Sammy Birkett, con la sua intelligenza limitata, si trovava pressappoco nelle condizioni di un contadino del Medioevo, che avrebbe considerato il trasferimento su Mercurio alla stregua di un lungo viaggio all’inferno.

«Odio questo posto» dichiarò Birkett fissando il soffitto.

«Anch’io, Sammy. Ma sono sicuro che un giorno torneremo a Whiteford» disse per fargli coraggio.

«Davvero, signor Jerome?»

Jerome annuì con vigore. «Perché non decidiamo fin d’ora di trovarci una volta alla settimana da Cordner a bere qualcosa insieme?»

«Oh, sarebbe magnifico!» Birkett si levò faticosamente a sedere, e un rivoletto di sangue gli colò dal naso. «Noi due seduti al banco da Cordner a parlare dei vecchi tempi.»

«Allora siamo d’accordo. Ma adesso cerca di riposare finché…» S’interruppe alzandosi di scatto in piedi perché il portello 17 si era aperto. Glevdane, riconoscibile dal casco blu di supervisore fu il primo a varcarlo, seguito dagli altri componenti della squadra. Guardò Birkett, poi la scheggia di roccia e infine Jerome.

«Si è trattato di un incidente molto grave» disse duramente. «Spero che abbiate una giustificazione valida.»

«Ho avuto tutto il tempo per escogitarne una» ribatté brusco Jerome. «Ma dove diavolo eravate?»

«Siamo tornati il più presto possibile.»

«La porta del 16 si era incastrata» spiegò uno dei Terrestri del gruppo, Urban Pedersen. «Abbiamo faticato per aprirla, e il rifornimento d’aria di tutte le sezioni è controllato da quella attigua. Se volete sapere la mia opinione, tutto il sistema è…»

«Nessuno ve l’ha chiesta, Pedersen» lo interruppe Glevdane, e tornando a Jerome. «Avanti, qual è la scusa del celebre ingegnere per aver quasi fatto morire questo povero scemo?»

«A chi dài dello scemo?» Birkett si alzò, e sarebbe caduto se due operai non l’avessero sorretto.

«Sammy non è uno scemo» rispose Jerome senza alterarsi. «Il suo unico errore è stato di fidarsi troppo delle vostre tute.»

«Le hanno progettate i Guardiani!»

«Questo dimostra…» Jerome non finì la frase perché intuiva che era pericoloso esprimere critiche nei confronti dei custodi del Thrabben. Cambiando argomento, disse: «Non sarebbe meglio portare Sammy da un medico?»

«Ne abbiamo già chiamato uno» rispose Glevdane. «Naturalmente è un dorriniano, ma voi sarete tanto gentile da dirgli cosa deve fare.» Detto questo si allontanò, esternando la sua ira pestando con forza i piedi sul terreno.

«Avevo notato la stessa cosa sulla Terra» disse Jerome agli altri terrestri quando Glevdane fu fuori portata. «Più si cerca di aiutare qualcuno, meno gratitudine si ottiene.»

8

Il giorno iniziato con l’incidente quasi mortale era stato lungo e faticoso, ma ciononostante, quando finalmente andò a letto, Jerome non riuscì ad addormentarsi.

Forse ci sarebbe riuscito se avesse potuto stare al buio, ma dalla seconda stanza di cui disponeva filtrava un po’ di luce, e non si potevano spegnere le lampade su Dorrin. Sulle prime Jerome era rimasto sorpreso pensando che questo comportava un notevole spreco di energia, ma poi aveva scoperto che a Cuthranel non esistevano centrali elettriche come sulla Terra. I globi emanavano luce senza interruzione perché l’ingegneria psichica ne aveva modificato la struttura cellulare.

Con la stessa tecnica si sarebbe potuto far sì che si spegnessero automaticamente di “notte”, ma i dorriniani avevano la fobia del buio come del vuoto. Le strade-tunnel della capitale, molte erano vecchie quanto le piramidi, e tutti gli edifici erano costantemente immersi in una luce bianca che deprimeva lo spirito di Jerome.

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