«Come va, Jerome?» chiese Mallat Rill Glevdane, il dorriniano supervisore dei lavori di riparazione. «Problemi?»
Jerome, intento a infilare mastice in una fenditura, interruppe il lavoro per asciugarsi la fronte attraverso il visore aperto del casco. «Sì… non riesco a sigillare la crepa. Il mastice non basta.»
«Quanto ne avete messo?»
«Almeno un chilo, e sento ancora filtrare l’aria. Dovremmo togliere la lastra e dare un’occhiata dietro.»
«Questa sarebbe l’opinione di un esperto?» chiese con aria ironica il dorriniano.
«Non c’è bisogno di essere un esperto per vedere che tutto questo impianto è da buttar via.»
«È stato costruito quarant’anni fa da Tarn Gall Evalne» disse Glevdane in tono non più divertito. «Era un Guardiano e uno dei nostri migliori ingegneri.»
«Forse sarà stato bravo a scolpire molecole in un grano di riso, ma non ne sapeva niente di impianti su larga scala.» Jerome indicò il portello stagno del Compartimento 18. «Ecco da dove vengono tutti i vostri guai. Strutture rigide costruite in un tubo semirigido. È quello che provoca le fughe d’aria. Il resto del tunnel si adatta allo scorrimento della roccia, ma sono i portelli a provocare i danni.»
«Se le strutture non fossero rigide i portelli non terrebbero.»
«Perché entrano dentro alle strutture. Dovrebbero invece incastrarvisi. Potrei disegnarvi un portello stagno con una distorsione di cinque o dieci centimetri nella struttura, e tuttavia a tenuta d’aria.»
«A quanto pare avete una mente molto brillante» osservò Glevdane, «e mi stupisco come un uomo che ha la presunzione di insegnare a Evaine sia stato assegnato a un lavoro da manovale.»
«È perché…» Jerome s’interruppe sorpreso perché, dopo tutto quello che era successo, lasciava ancora che le sue antiche preoccupazioni prevalessero sulle sue attuali attitudini. Verso la fine del colloquio inteso a decidere sulla sua sistemazione, avvenuto sessantasei giorni prima, era rimasto sbalordito nel sentire che, non avendo qualifiche nel campo dell’ingegneria formale, era svantaggiato quando gli si doveva assegnare un incarico in una società aliena su un mondo alieno. Gli pareva mostruosamente sleale che gli stessi pregiudizi per cui aveva sofferto sulla Terra dovessero danneggiarlo anche in circostanze completamente diverse e con un corpo diverso. La sua abitudine a discutere, quando era studente, coi professori, invece che ascoltarli, giocava ancora a suo sfavore.
«Comunque» concluse, «sono sempre del parere che si dovrebbe estrarre la lastra.»
«Mi inchino alla vostra opinione di esperto» disse Glevdane. «Le nostre norme di sicurezza esigono che, quando è possibile, non devono rimanere più di due operai in una sezione evacuata del tunnel. Credete di farcela con un solo aiutante?»
«Volete che lo faccia io ?»
«Siete voi il famoso tecnico, ma naturalmente se preferite che assegni il lavoro a uno più esperto…»
«Ce la farò» tagliò corto Jerome, celando i suoi timori alla prospettiva di affidare la vita alla tuta dorriniana. L’ambiente limitato aveva molto influito sulla scienza e la tecnologia dorriniane. Esisteva una gran quantità di minerali, ma l’ossigeno era un elemento indispensabile che doveva essere prodotto artificialmente, e a causa della sua scarsità la metallurgia aveva fatto scarsi progressi. Per lo stesso motivo non erano stati prodotti il vetro, le materie plastiche e altri materiali, col risultato che molti manufatti parevano pezzi da museo a Jerome, aggeggi in cui la maggior parte dell’ingegnosità di chi li aveva progettati era stata soffocata dalla scarsità del materiale necessario per realizzarli. La tuta che indossava ne era un esempio. Gli sembrava uno scafandro del 19° secolo, ed era convinto che non avrebbe funzionato sulla Terra.
«Bene» disse Glevdane. «Avete qui tutti gli attrezzi necessari. Vi manderò un uomo ad aiutarvi.» Aggiunse poi che lui e gli altri avrebbero rispettato le norme di sicurezza ritirandosi due compartimenti più in là e chiudendo i portelli stagni prima che Jerome cominciasse a togliere la lastra.
Jerome annuì ascoltandolo distrattamente, occupato com’era a controllare la riserva di ossigeno e a chiudere il casco. La tuta diventò più soffocante che mai quand’ebbe avvitato il pesante visore, e il senso di claustrofobia gli rammentò una volta di più come detestasse la vita su Dorrin. Quasi tutte le notti sognava di essere sulla Terra, di camminare all’aperto godendo quando la pioggia gli bagnava la faccia e, svegliandosi nello sterile ambiente chiuso del Recinto, non riusciva a dominare il tremito interno che lo agitava. Le notti in cui Donna Sinclair gli era vicina erano più facili da sopportare, ma l’unica cosa che dava uno scopo e una motivazione alla sua esistenza era la lontana prospettiva di tornare nel suo mondo. Se per raggiungere più presto quello scopo comportava lavorare per i Dorriniani aiutandoli a perfezionare la loro progettata invasione della Terra, bene, era disposto ad arrivare al limite estremo.
«Mi sono offerto volontariamente di aiutarvi, signor Jerome» disse un operaio avvicinandosi. «Vi spiace?»
Era impossibile riconoscere l’uomo chiuso nella tuta, ma Jerome lo riconobbe dal tono e dal modo di esprimersi. Da quando era arrivato su Mercurio gli era capitato qualche volta di parlare con Sammy Birkett, e aveva trovato quei colloqui difficili e imbarazzanti. Il giovane giardiniere aveva tutta l’aria di essersi adattato con gran facilità alla nuova vita, ma sotto sotto Jerome sentiva che era confuso e spaventato.
Una delle manifestazioni di questo stato d’animo era il desiderio di stare più che poteva con Jerome, parlando senza posa di Whiteford, facendo lunghi elenchi di nomi nella speranza di scoprire qualche conoscenza comune. Jerome lo capiva, ma si sentiva sminuito in sua compagnia. Lui e Birkett erano socialmente incompatibili, sia sulla Terra sia lì, tuttavia Jerome aveva l’impressione che la sua avversione fosse più che altro dovuta alla scena traumatica a cui aveva assistito nel giardino di Pitman. Come poteva aver rapporti con una persona la cui bocca aveva eruttato fiamme che le avevano distrutto la faccia e il cui corpo si era contorto, spaccato, raggrinzito per effetto del calore solare?
«Certo che puoi aiutarmi, Sammy» rispose, facendo buon viso a cattivo gioco. «Gli faremo vedere come sappiamo lavorare noi di Whiteford.»
«Certo, signor Jerome. Potete scommetterci che gliela faremo vedere.» La radio incorporata nella tuta (il meglio che la microtecnica dorriniana fosse riuscita a creare) faceva sì che la voce di Birkett sembrava scaturire dal suo stesso casco, creando un senso di sgradevole intimità. «Sono pronto.»
«Bene, Sammy, mettiamoci al lavoro.»
Intanto Glevdane e gli altri stavano per raggiungere il Compartimento 17. Vi entrarono, chiusero il portello rotondo interrompendo il contatto radio, e pochi attimi dopo sopra il portello si accese una luce gialla per indicare che la chiusura era a tenuta stagna. I due aspettarono ancora che gli altri raggiungessero il Compartimento 16, distante circa duecento metri, e finalmente l’immagine di un cerchio verde, simbolo dorriniano di “via libera”, lampeggiò per un attimo nella mente di Jerome.
La semplice e breve comunicazione telepatica di Glevdane ricordò a Jerome che i due dorriniani che aveva conosciuto per primi, Pitman e Belzor, erano dei tipi a sé in materia di comunicazioni mentali. Tutti i dorriniani, chi più chi meno, erano telepati, ma a livello medio erano soltanto in grado di trasmettere immagini convenzionali a breve distanza. Così la telepatia era solo una specie di utile appendice delle comunicazioni verbali, e quando Jerome aveva parlato delle straordinarie facoltà di Pitman e Belzor erano rimasti a bocca aperta.
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