«No, non è un sogno. Sei su Mercurio e, a quanto mi ha detto Pirt, sapevi già qualcosa prima di arrivare qui, qualcosa che è servita ad attutire lo shock. Gli altri non sono stati fortunati come te.»
«E va bene» sospirò Jerome. «Ma in che punto di Mercurio mi trovo?»
«Al Polo Nord. A sessanta piedi di profondità.»
Jerome tradusse i piedi in metri prima di rispondere: «Così poco? E il calore del Sole?»
«Non ne arriva molto ai poli» gli spiegò Thwaite. «I Dorry si lagnano sempre della loro scalogna ma, se dobbiamo credere al mito della cometa, se la sono cavata abbastanza bene.»
«Mito? Pirt dice che è un fatto storico.»
Thwaite alzò le spalle. «Se è così sono stati fortunati a cavarsela con un’inclinazione assiale nulla. La parte in ombra è scomparsa, ma se non altro a ciascun polo rimane una piccola zona crepuscolare fissa.»
Jerome riuscì ad allacciare l’ultimo bottone. «Senti, visto che siamo compagni di esilio, posso darti del tu?»
«Ma certo fratello, siamo tutti sulla stessa barca.»
«Mi sembri piuttosto scettico a proposito del Sole, della cometa e di Mercurio, perché?»
«Dipende da quel po’ che so. Mercurio ha quella che chiamano risonanza orbitale, per cui due dei suoi anni corrispondono esattamente a uno dei suoi giorni. Posso anche ammettere che l’impatto con la cometa gli abbia impartito una rotazione assiale molto prossima all’esatto valore, e che poi l’attrito di marea col Sole abbia apportato l’ultimo tocco, però ho la sensazione che per arrivare a tanto occorreva molto più di qualche migliaio d’anni.»
«Eri un astronomo?»
«A Barrow ?» Thwaite rise. «No, solo un modesto dilettante. Il fatto di essere trasportato qui mentre bevevo la mia birra ha acuito il mio interesse in queste cose, se capisci cosa voglio dire. Sei pronto?»
«Ma, non saprei…»
«Più presto ti unirai agli altri e meglio sarà per te. È davvero sorprendente come fai presto ad adattarti tu. Guarda me: dopo undici anni non mi sono ancora abituato ad avere una faccia che sembra quella di uno dei sette nani. Andiamo.»
«Va bene.» Jerome si sentiva timido e ansioso, ma seguì Thwaite e gli si mise a fianco mentre uscivano dalla stanza e svoltavano in un lungo corridoio illuminato da globi appesi al soffitto. Calcolò di essere un po’ più alto di prima e si accorse subito che non gli riusciva facile camminare. Aveva un equilibrio instabile che richiedeva più controllo e attenzione di quanto fosse capace. Dopo qualche passo si appoggiò al muro per reggersi.
«Non preoccuparti se ti senti debole» disse Thwaite. «I supertele restano digiuni due o tre giorni prima di un transfer. Dopo aver mangiato un paio di bistecche starai dritto come un palo.»
Jerome si accorse solo allora che aveva fame e pensò a come potevano risolversi i problemi del vitto in un ambiente completamente ostile. «Da dove vengono le bistecche?» chiese.
«Coltivano funghi giganti e li mangiano affettati. I Dorry ci sanno fare, in questo genere di cose. Ma non riusciranno mai a regalarsi una buona salsiccia del Cumberland.»
Thwaite cominciò a elencare i cibi inglesi di cui sentiva la nostalgia, ma Jerome era distratto dalla vista delle altre persone che incontravano lungo il corridoio. Per la maggior parte indossavano abiti di stile terrestre, ma qualcuno aveva la tunica a strisce e la sottanella che distinguevano i Dorriniani. Erano quasi tutti alti e magri, il che era probabilmente dovuto alla scarsa gravità di Mercurio. Jerome non si sentiva più leggero, ma questo era dovuto al fatto che aveva ereditato un corpo abituato a quell’ambiente. Qualche terrestre lo salutò con un cenno o un sorriso di benvenuto, ma solo dopo che una graziosa brunetta gli ebbe sorriso in modo particolarmente caloroso Jerome si rese conto di attirare più attenzione da parte delle donne che non degli uomini.
«Ti troverai bene, qui» disse Thwaite voltandosi a guardare la donna bruna. «Quella è Donna Sinclaire. Da due anni aveva una cotta per Blamene, ma lui era troppo innamorato di una Dorry per badarle. Adesso che hai preso il suo posto potrai darti da fare… Sei fortunato.»
«Fortunato, dici?»
«Certo. Non so com’era il tuo aspetto, prima, ma adesso sei un bel giovane…»
«Dove andiamo?» tagliò corto Jerome a cui non interessavano quelle sciocchezze. In quel punto il corridoio si allargava trasformandosi in quella che sembrava un’affollata strada sotterranea. «Cos’è questo posto?»
«Ci troviamo vicino al centro del Recinto» rispose Thwaite. «Tutti i terrestri vivono e lavorano entro un raggio di circa duecento yarde da là. Questo è il nostro territorio. I Dorry che vedi qui sono in massima parte supertelepati che imparano lingue e usanze terrestri. Se sei fortunato, ti daranno un incarico di insegnante.»
«Lavorano tutti?»
«Non è obbligatorio, ma quasi tutti preferiscono avere qualcosa da fare. Se qualcuno si rifiuta lo lasciano bollire nel suo brodo, ma prima o poi tutti decidono di lavorare in qualche modo. Gli unici che se ne stanno per conto loro e non fanno niente sono tipi religiosi di vecchio stampo, che sono convinti di essere morti. Ma sono pochissimi e non danno fastidio. Non si può obbligare a lavorare un illuso che si crede in Purgatorio.»
«In fondo li capisco» disse Jerome, guardandosi intorno. Pavimento, muri e soffitto erano di un grigio uniforme e la luce dei globi era fredda, sterile. Il pensiero di dover trascorrere il resto della vita in quell’ambiente lo riempì di un misto di tristezza, claustrofobia e disperazione.
«Non si sta male qui» disse Thwaite. «Ti ci abituerai.»
«Credi?»
«Non hai molta scelta.» Thwaite si fermò davanti a una delle tante porte che si aprivano sul muro curvo. «Entra qui. Devi sostenere un colloquio perché si possa giudicare qual è il posto più adatto per te nella comunità. Non ti allarmare, saremo in tre a parlarti: io, in qualità di segretario del Recinto, Mel Zednik, il nostro sindaco, e Pirt Conforden, il direttore responsabile dorriniano per gli affari terrestri.
«E quello che ha parlato con te appena ti sei svegliato dopo il tuo arrivo. Non è male per essere un Dorry.»
«Non so perché» disse Jerome guardandolo negli occhi «ma ho l’impressione che tu non sia entusiasta dei Dorriniani, però ti sforzi di non parlarne male.»
«Non saprei spiegarlo» rispose l’altro un po’ risentito. «Sarà perché a Barrow, nell’85, mi avevano dato per spacciato, e grazie ai Dorry ho vissuto per altri undici anni e vivrò per chissà quanti ancora. Nessuno col cervello a posto potrebbe lamentarsi di questo cambio, ti pare?»
«E se avessi avuto solo cinquant’anni e nessuna malattia grave?»
«I transfer d’emergenza come il tuo sono molto rari.»
«Questo non cambia le cose.»
«Devi parlarne a Pirt» concluse Thwaite facendo un inchino esagerato per invitare Jerome a entrare per primo.
Jerome entrò nella stanza, che era troppo calda e sapeva di chiuso. L’unico arredo consisteva in quattro sedie disposte a intervalli regolari intorno a un tavolo rotondo. Erano già seduti un Dorriniano, quello con cui lui aveva parlato al risveglio, e un uomo dai capelli biondo-grigi in abiti terrestri. Quest’ultimo, che doveva essere Zednik, aveva un paio di sopracciglia cespugliose e la faccia rugosa, e sarebbe sembrato molto vecchio se non fosse stato per la figura snella e il portamento eretto. Thwaite fece rapidamente le presentazioni, si mise a sedere e indicò a Jerome la sedia rimasta libera. Jerome si sedette guardò fisso il Dorriniano che gli stava dirimpetto.
Conforden gli rivolse un sorriso a fior di labbro: «Be’, Rayner non occorre essere un telepate per capire che non siete felice qui su Dorrin.»
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