Nonostante tutto quello che aveva saputo da Pitman e Conforden, quando arrivava a tentare di comprendere le loro ragioni razziali si sentiva come un antico Greco che meditava sui fulmini che saettavano sull’Olimpo. I Dorriniani erano dotati di poteri divini, su questo non c’erano dubbi, ma c’era qualcosa di veramente manicheo nella battaglia che conducevano sulla Terra? Jerome credeva di essersi liberato da tutte le tracce di convinzioni religiose, ma ciononostante la sua coscienza smarrita insisteva nel costruire castelli da giochi di parole, fatti appena adombrati, assurde associazioni di idee. Principe… Principe delle Tenebre… Belzor… Belzebù… elio… eliaco… Hell (inferno)…
Gli avevano detto che l’invasione clandestina della Terra, l’invasione della personalità, durava da più di tremila anni. Perché? Forse gli occasionali squarci nel velo del segreto dorriniano erano alla base di taluni elementi delle mitologie e religioni terrestri? E perché alcuni membri della razza dorriniana erano impegnati in una battaglia mortale col Principe?
Troppe domande , disse tra sé Jerome col cervello annebbiato dal sonno incombente. Troppo cui pensare…
«Sveglia, giovanotto. Non puoi startene sempre a cuccia.»
L’uomo la cui voce aveva destato Jerome aveva occhi come bottoni, una larga bocca sporgente, un paio di tonde orecchie a sventola, ma la cosa più notevole in quella specie di gnomo da favola — almeno per quanto riguardava Jerome — erano i capelli tagliati corti e il fatto che indossasse camicia e calzoni larghi di stile terrestre. Non ancora sveglio del tutto, Jerome si concesse l’illusione di essersi svegliato da un lungo incubo. Si rizzò prontamente a sedere, ma vide subito che si trovava ancora nella stanza circolare, una stanza scavata nella roccia di Mercurio.
«Mi chiamo Joe Thwaite» si presentò lo sconosciuto. «Abito da undici anni in questa parrocchia, ma prima vivevo nella bella cittadina di Barrow-in-Furness.»
«Barrow-in-Furness?» Jerome non ci capiva più niente. «Ma non è in Inghilterra?»
«Certo. La più bella città del paese.»
Jerome si sentiva sospeso fra due mondi. «Non avete l’accento inglese.»
«E tu non hai l’accento americano. Nessuno ha più l’accento del suo paese di origine.» Thwaite gli rivolse un sorriso da gnomo. «Gli accenti sono principalmente dovuti a uno sviluppo muscolare e adesso tu hai muscoli da Dorriniano, e così parli come un Dorriniano… come tutti, qui.»
«Non capisco.»
Joe Thwaite lo scrutò attentamente.
«Ti hanno imbottito di droghe fino agli occhi, eh? Non ricordi niente di quello che ti ha detto Pirt della colonia?»
«La colonia? È tutto così…»
«Senti, quello che devi soprattutto ricordare è che il transfer funziona nei due sensi. Ci sono più di cento Terrestri, qui. Tutti quelli che i Dorriniani hanno sostituito negli ultimi decenni… anche quelli che sono bruciati.»
Jerome si sforzava di comprendere quello che l’altro diceva. Gli avevano spiegato che il transfer era un avvenimento reciproco, ma in quel momento era troppo intontito per trarne le conclusioni logiche.
Non era il solo della sua razza su Mercurio.
Doveva esserci una colonia di esuli loro malgrado, uomini e donne che avevano condiviso la devastante esperienza di perdere conoscenza sulla Terra per poi svegliarsi su un lontano pianeta. A detta di Thwaite, anche coloro che avevano attirato l’interesse dell’opinione pubblica “morendo” per autocombustione erano membri della colonia, e se così era lui poteva ricordare i nomi di molti compagni d’esilio.
Rabbrividì all’idea. La sua facoltà di stupirsi era stata mandata in tilt dagli avvenimenti degli ultimi tempi, ma provava una strana inquietudine al pensiero di essere presentato a qualcuno di cui collegava il nome alle raccapriccianti fotografie dell’archivio dell’ Examiner. Come doveva comportarsi con uno che ricordava come un mucchio di cenere e un paio di piedi infilati nelle pantofole? E questo non era il peggiore dei suoi tormenti…
«C’è qualcuno che si chiama Sammy? Sammy Birkett?»
«Sì, è stato portato qui poche ore prima…» Thwaite s’interruppe corrugando la fronte. «Come fai a saperlo?»
«Ero presente quando il transfer non è riuscito. L’ho visto… ho visto il suo corpo bruciare.»
«Eri davvero presente?» Gli occhi di giaietto di Thwaite brillavano di maliziosa gioia. «È una cosa che non dovrebbe succedere. Si vede che gli scagnozzi di Belzor hanno allentato la vigilanza. Su, giovanotto, in piedi! Devono saperlo anche gli altri.» Thwaite prese una borsa a tracolla posata accanto al letto e ne trasse camicia, calzoni e biancheria che porse a Jerome. Sebbene gli indumenti fossero privi di etichette parevano fatti in serie e potevano sembrare di provenienza terrestre.
«Dove dovrei andare?» chiese Jerome.
«Vedrai. Intanto sappi che questa borsa contiene tutti i tuoi beni, il che significa un ricambio di abiti e uno spazzolino da denti» disse Thwaite. «I Dorries forniscono tutto questo gratis. Dicono che lo fanno perché sono generosi, ma non crederci! Così vestiti dovremmo sentirci più a nostro agio, secondo loro, ma invece così possono sorvegliarci meglio. Lo stesso vale per i capelli. Quando vedi qualcuno che non è pettinato come un finocchio armeno vuol dire che è stato trapiantato dalla Terra.»
«Grazie dell’informazione» disse Jerome, un po’ confortato al pensiero che avrebbe potuto riconoscere i suoi simili. La presenza di Thwaite gli faceva sembrare Mercurio meno alieno. Si alzò e infilò le mutande di un tessuto simile al raion.
«C’è un’altra cosa che ci offrono gratis» disse Thwaite. «La vasectomia. Quando un supertele sta per andare in transfer viene reso sterile. Così si evita che i terrestri producano ibridi.»
«Ibridi?»
«Forse non è la parola giusta, ma sai cosa voglio dire. Il figlio nato da due terrestri in corpi dorriniani andrebbe classificato Terry o Dorry?»
«Ottima domanda» rispose Jerome, che stava trovando difficoltà nell’allacciare un bottone.
«Puoi dirlo forte!» Thwaite si tirò pensosamente il lobo di un orecchio. «Però bisogna anche dire, a favore dei Dorry, che avrebbero potuto invece vesectomizzare noi. Sai una cosa? Quando sono arrivato qui avevo sessantasei anni… Me ne stavo seduto al Globo di Ulverston a bere una pinta della miglior birra Hartley… Andavo tutti i giovedì a Ulverston in corriera perché è giorno di mercato e i pub stanno aperti dalla mattina alla sera… e improvvisamente mi sono svegliato in questa stanza… così come è successo a te.»
Jerome lo guardò rinunciando per il momento ad abbottonarsi la camicia. «Un bello shock!»
«Parole sante! Dopo undici anni mi sono abituato a molte cose, qui, ma non a fare a meno della birra. Sai, qualche volta scambierei tutta la loro gentilezza con qualche pinta della migliore Hartley.»
«Qui non esiste birra?»
«I Dorry non bevono alcoolici, e non posso fabbricarmela io perché questo posto è talmente sterilizzato che non esistono lieviti selvatici.»
«C’è qualcosa di sbagliato nei bottoni di questa camicia» disse Jerome.
«È colpa delle tue dita… i Dorry non usano bottoni.»
«Ma imparerò a servirmi presto anche di queste mie nuove mani, spero.»
«Dici? Aspetta finché non proverai ad adoperare coltello e forchetta. Ti ci vorrà una settimana prima di imparare bene.» Thwaite gli si avvicinò per abbottonargli la camicia. «Quanto ai calzoni» disse poi, «devi arrangiarti da solo… Non vorrei che qualcuno ci vedesse e poi andasse in giro a dire che sono un finocchio.»
«Speriamo di no.» Jerome tacque concentrandosi sull’impresa di vestire il suo nuovo corpo più giovane e magro, poi l’anormalità delle sue condizioni tornò a sopraffarlo come un’ondata che era riuscito per un poco a sfuggire. «Continuo a pensare che sto sognando.»
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