Bob Shaw - Autocombustione umana

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Autocombustione umana: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella cittadina americana di Whiteford una ragazza va in cucina a preparare il caffè lasciando il padre seduto nella sua poltrona. Quando ritorna dopo pochi minuti, la stanza è piena di fumo ma non c’è più incendio: ciò che è bruciato (dall’interno) e ridotto in finissima cenere, è soltanto suo padre. Si scopre allora che testimonianze più o meno credibili sul fenomeno del CUS (Combustione Umana Spontanea) si erano avute fin dall’antichità. E pochi giorni dopo, nella stessa cittadina — un secondo caso si verifica sotto gli occhi dello stesso scettico giornalista che sta indagando sul primo. L’“autocombustione umana” è ormai un fatto accertato. Resta solo da spiegare chi o che cosa “si nasconda” dietro il mostruoso fenomeno.

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Jerome gettò via il temperino, richiuse il fucile, e si sollevò di quel tanto da poter sbirciare oltre il bordo. Era arrivato a circa ottanta metri dalla riva e poté vedere l’uomo, alto e pallido, che si teneva all’ombra di un salice vicino allo chalet. Istintivamente Jerome si alzò a sedere, imbracciò il fucile e prese la mira.

Avanti! lo sfidò la muta voce con sarcasmo. Spara a vuoto!

«Ehi, brutto bastardo!» gridò Jerome cercando disperatamente di tenerlo sotto mira. Il dondolio della barca rendeva difficile la cosa, e i secondi fuggivano, e per quanto si sforzasse non poteva cancellare dalla mente l’immagine del temperino che incideva per il lungo la cartuccia nella canna destra, lasciando solo un pezzo di plastica. Lo scherno si stava tingendo di allarme e lo sconosciuto sulla spiaggia si mosse improvvisamente. Jerome premette il grilletto e lasciò che il rinculo lo facesse ricadere sul fondo della barca.

Accovacciato vicino al cadavere di Pitman, con le orecchie che rintronavano, cercò di sentire cosa stava succedendo a riva. Era sicuro che le centinaia di pallini ammassati a formare un unico proiettile, tenuti ancora insieme dalla cartuccia tagliata, avevano avuto la forza di arrivare fino alla spiaggia con effetto devastante… ma aveva mirato bene? I mirini dei fucili da caccia non erano fatti per quel genere di mira, la barca dondolava, e lui era in preda al panico. La pressione psichica dello sconosciuto era cessata, ma questo poteva significare che si fingeva morto e aspettava l’occasione buona per sferrare il colpo decisivo.

Jerome valutò le probabilità e giunse alla conclusione che non aveva niente da guadagnare lasciandosi andare alla deriva fino a terra. Se l’avversario era vivo, era meglio cercare di scoprirlo, presto o tardi. Alzò la testa sospirando e chiedendosi se una fucilata in fronte dava tempo di sentire dolore o di rendersi conto dell’accaduto.

Sulla spiaggia tutto era tranquillo. Il sole pomeridiano illuminava lo chalet riportandogli i ricordi di tante domeniche tranquille. Scrutò nell’ombra sotto il salice ma non riusciva a distinguere con chiarezza. Afferrò i remi che aveva lasciato andare al primo sparo e manovrò in modo da costeggiare il lago, con l’assillante sensazione di avere un fucile puntato contro la schiena. La sensazione aumentò di minuto in minuto, fino a trasformarsi in un’immagine mentale che lo indusse a chiedersi se non si trattava di una trasmissione telepatica, una molesta punizione per il suo atto di sfida, e col dubbio e la paura tornò anche la pressione al petto. Rallentò il ritmo delle remate, imponendosi di respirare lentamente e regolarmente e praticò la nuova arte di sopportare l’insopportabile finché la barca non urtò il canneto nell’acqua fangosa. Smontò e il fango gli si appiccicò alle gambe.

Raccolse il fucile, strinse il dito sul secondo grilletto e guadò i pochi metri che lo separavano dalla terraferma. La prima cosa che vide fu un fucile da caccia ai piedi del salice. Dal lato opposto dell’albero sporgevano una spalla e un braccio coperti di stoffa color cachi, e Jerome capì che l’uomo della stazione di servizio stava seduto con la schiena appoggiata al tronco, rivolto nella direzione opposta al lago e a lui. Da quanto poteva scorgere stava immobile, ma la mano visibile era vicinissima al fucile.

Jerome pensò che forse l’avversario fingeva, che gli tendeva un tranello, ma scartò l’ipotesi perché la personalità dell’individuo con cui era stato mentalmente in contatto era troppo fredda e disumana per ricorrere a un sotterfugio. Se avesse avuto modo di uccidere Jerome negli ultimi minuti, gli sarebbe stato facilissimo farlo, ma forse era svenuto. Scuotendo le scarpe per liberarle dall’acqua fangosa, Jerome si avvicinò all’albero senza far rumore. Si chinò ad afferrare il fucile per la canna, e lo gettò lontano. La mano non si mosse.

Ancora più ansioso, Jerome girò dall’altra parte del tronco, tenendo il fucile puntato, per fermarsi di botto non appena poté vedere direttamente l’uomo seduto. La fucilata l’aveva colpito in pieno sullo zigomo destro e quel lato del viso era segnato da una profonda cavità. Al centro, in mezzo alla carne maciullata e sanguinolenta, spiccava il vivido arancione del bossolo di plastica. La testa, eretta, poggiava contro il tronco. L’occhio destro era distrutto, ma il sinistro era aperto. Nonostante l’orribile squarcio, l’uomo era ancora vivo, e l’occhio fissava Jerome con serena malevolenza.

Jerome arretrò, scuotendo la testa, e fece per darsela a gambe … ma era troppo tardi.

Gli parve che una violenta luce gli si accendesse nel cervello, cancellando tutto, abbagliando la sua coscienza, e poi precipitò attraverso il biancore in un oceano di candida luce.

5

I tre uomini e le due donne che guardavano con ansia Jerome avevano qualcosa di strano.

Non erano i capelli lunghi fino alle spalle degli uomini, sebbene quella pettinatura fosse fuori moda dal 1990, e neppure l’abbigliamento dei cinque, per quanto insolito. Indossavano tutti sottanelle grigioazzurre di una stoffa che pareva seta, e una blusa sciolta dello stesso materiale, tagliata a strisce strette che pendevano da un colletto nero. Gli uomini avevano il colletto alto, le donne una scollatura bassa e quadrata.

Dietro al gruppo, Jerome poteva vedere parte di una stanza rotonda, priva di finestre e col soffitto a cupola, e anch’essa aveva qualcosa di strano che però non c’entrava per niente con l’architettura. Lui se ne stava seduto con qualcosa di morbido e imbottito che gli pesava addosso, cercando di isolare e identificare gli elementi estranei dell’ambiente.

Il più alto dei tre uomini scosse la testa e disse: «Na tostin arvo kald.» La donna che gli stava vicino trattenne il fiato, si coprì la faccia con le mani e si voltò.

Jerome la guardò, confuso e stupito, come un prigioniero che si sveglia in una segreta, mentre un lieve senso di disagio cominciava a impadronirsi di lui. Invece di studiare l’ambiente avrebbe fatto meglio a chiedersi dov’era e chi erano quei…

Ci sono! la scoperta lo riempì di attonito stupore. Non ho gli occhiali ma ci vedo benissimo sia da vicino che da lontano… nei minimi particolari… Mi trovo in un ospedale e hanno fatto qualcosa ai miei occhi!

Ma il piacere che gli diede questa scoperta fu presto sopraffatto dal senso di disagio e da un turbine di domande.

Ma dove sono di preciso? L’uomo della stazione di servizio mi ha sparato? Se questo è un ospedale, perché il personale è vestito in questo strano modo? E perché me la sto prendendo tanto?

L’uomo alto gli si avvicinò, e disse chinandosi su di lui: «Mi chiamo Pirt Sull Conforden. Voi siete Raymond Jerome?»

«Rayner» corresse Jerome meravigliandosi dello strano timbro della propria voce. «È un nome di famiglia.»

«Benissimo, Rayner. Ci sono molte cose che voi volete, e avete il diritto, di sapere, così noi due faremo una bella chiacchierata.» Conforden diede un’occhiata ai suoi compagni che se ne andarono immediatamente uscendo attraverso un’arcata in uno stretto corridoio che a Jerome parve simile a un tunnel. Quando sparirono oltre una svolta, si chiese se per caso non si trovasse in un complesso sotterraneo, ma la strana apatia a cui era in preda gli impedì di approfondire l’argomento.

«Perché quella donna era così sconvolta?» chiese, e notò di nuovo che la sua voce aveva un timbro diverso.

«È morto un suo carissimo amico. Capirete poi.» Conforden parlava correttamente, senza particolare accento, ma con la precisione di un esperto linguista che parla una lingua poco familiare. Dimostrava poco meno di quarant’anni, e aveva una faccia ovale infantile ma con l’espressione di chi è stanco della vita. La pelle, pallida e liscia, senza una macchia, dava l’impressione di essere stata spalmata col fondotinta.

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