Bob Shaw - Autocombustione umana

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Autocombustione umana: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella cittadina americana di Whiteford una ragazza va in cucina a preparare il caffè lasciando il padre seduto nella sua poltrona. Quando ritorna dopo pochi minuti, la stanza è piena di fumo ma non c’è più incendio: ciò che è bruciato (dall’interno) e ridotto in finissima cenere, è soltanto suo padre. Si scopre allora che testimonianze più o meno credibili sul fenomeno del CUS (Combustione Umana Spontanea) si erano avute fin dall’antichità. E pochi giorni dopo, nella stessa cittadina — un secondo caso si verifica sotto gli occhi dello stesso scettico giornalista che sta indagando sul primo. L’“autocombustione umana” è ormai un fatto accertato. Resta solo da spiegare chi o che cosa “si nasconda” dietro il mostruoso fenomeno.

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«Controlla l’ossigeno, e poi cominciamo» disse. Aspettò che Birkett avesse controllato la bombola per poi segnalare che era pronto, e quindi cominciò a svitare la lastra sospetta. Con l’aiuto di Birkett tolse tutte le viti, non dissimili da quelle fabbricate sulla Terra — le avevano ideate i dorriniani o i terrestri portati su Dorrin avevano a lungo andare influenzato i progettisti dorriniani? — e non appena l’ebbero tolta si udì il sibilo acuto dell’aria che fuggiva nel vuoto circostante.

Rimpiangendo una volta di più di non avere un orologio terrestre, Jerome contò due mirds prima che il sibilo cessasse e il rigonfiamento della tuta gli indicasse che in quella sezione del tunnel era subentrato il vuoto. Il pensiero dei diciotto operai morti nella costruzione del tunnel — come gli aveva raccontato Conforden — non era per niente consolante.

Senza pressione atmosferica la lastra era più facile da maneggiare. La posarono a terra, poi ripulirono il vano badando a non danneggiare le guarnizioni a pressione sui lati finché non misero a nudo un tratto di nera roccia vulcanica. Era la prima volta che Jerome vedeva la crosta del pianeta, ma non era certo quello il momento di esaminarla. Tutta la sua attenzione si concentrò subito su un frammento lungo e stretto che era precipitato dall’alto conficcandosi nel metallo dopo aver distrutto la guarnizione a tenuta d’aria. Il mastice che Jerome aveva pompato dall’esterno giaceva in mucchietti simili a escrementi.

«Tombola!» esclamò, soddisfatto di aver intuito il problema e convinto che non sarebbe stato tale ancora per molto. Afferrò la scheggia e la tirò, ma non riuscì a estrarla. Era piuttosto grossa e si era conficcata fra il bordo e la roccia. Si avvicinò, cambiò presa e tornò a tirare. La scheggia cominciava a muoversi quando un brusco schiocco nelle orecchie gli rivelò che la pressione interna della tuta stava diminuendo. Una fila di luminosi punti rossi si andò allungando sulla cucitura del guantone destro. Jerome rimase a fissarla affascinato, incapace di respirare. Passati alcuni secondi la striscia che pareva sangue della chiusura di sicurezza fu completata e lui capì che la tuta si era autosigillata. Jerome imprecò a voce alta.

«Cosa c’è, signor Jerome? Vi siete fatto male?» chiese Birkett che stava ripulendo la lastra.

«Prima ci sfiliamo queste maledette tute e meglio sarà» rispose Jerome. «Devo estrarre questa scheggia e ho bisogno del tuo aiuto, ma non sforzarti troppo altrimenti saltano le cuciture.»

«Sono pronto, signor Jerome, quella scheggia non è un problema. So come fare.»

Birkett afferrò la scheggia con un vigore che Jerome giudicò pericolosamente eccessivo, e a furia di torcere e tirare, fra tutti e due riuscirono a estrarla. Birkett la posò a terra, mentre Jerome esaminava la guarnizione danneggiata della porta. Con suo gran sollievo scoprì che la scheggia l’aveva solo spostata e spingendo una leva fra la roccia e la guarnizione riuscì a rimetterla a posto. Poi applicò il mastice prima di reinserire la lastra.

Lavorando, pensava che il tunnel era lungo otto chilometri, dalla capitale dorriniana di Cuthranel al punto previsto per l’atterraggio della Quicksilver. A suo giudizio, anche tenendo conto delle difficili condizioni in cui avevano lavorato i dorriniani, l’intero complesso era piuttosto primitivo, costruito con tecniche che anche un antico romano avrebbe capito. Sapendo cosa significava il Thrabben per i dorriniani si sarebbe aspettato qualcosa di più affidabile e sicuro, ma anche quel progetto era un esempio dell’ambivalenza che aveva notato nel carattere di quel popolo.

Si gloriavano di essere altamente etici, umani e razionali, ma nello stesso tempo erano inconsciamente spietati quando si trattava delle loro ambizioni razziali. Jerome, condizionato dalla sua vita precedente, aveva calcolato che gli abitanti di Mercurio assommassero a circa un milione ed era rimasto sorpreso nel sapere che la capitale ne contava meno di ventimila. E c’erano stati periodi in cui gli abitanti di Mercurio erano meno dei Quattromila di cui avevano giurato di conservare la personalità.

In nome del Thrabben erano stati fatti molti sacrifici personali in vista di quell’unico, sommo obiettivo, e il tunnel costituiva un perfetto paradigma del carattere dorriniano. Era stato costruito solo per i Quattromila, sarebbe servito una sola volta e la vita degli operai non contava, purché non ne morissero tanti da mettere in pericolo lo scopo del Thrabben. quella galleria sotterranea suggeriva a Jerome un paragone: quello delle formiche che si sacrificavano per il bene della colonia durante la forzata ritirata da un nido… e nonostante il caldo gli parve di rabbrividire.

«Proviamo a rimettere a posto la lastra» disse a Birkett. «Questo posto comincia a darmi sui nervi.»

Birkett lo aiutò a sollevare la lastra e a sistemarla al suo posto. Jerome rimase soddisfatto nel constatare che si inseriva perfettamente ai bordi e cominciò a rimettere a posto le viti.

«Non possiamo lasciare qui questo pezzo di roccia» disse Birkett indicando la grossa scheggia. «La porto sul carrello.»

«Non sollevarla da solo» lo ammonì Jerome ancora intento a controllare le guarnizioni. Ci faremo portare qui il carrello.

«Maledizione» imprecò Sammy. «Non mi lasciano mai far niente, qui! Adesso sono forte come un toro, sapete.»

«Sammy, non devi dimostrare niente a nessuno. Il tuo nuovo corpo non ha niente a che fare col tuo vero io. »

«Fate presto a dir così, signor Jerome. Voi lavorate con la testa e potete ancora farlo. Io facevo il giardiniere. A cosa serve un giardiniere in questo buco?»

«Ecco fatto» mormorò Jerome stringendo l’ultima vite, senza badare a quello che diceva Birkett. Poi trasse da una tasca della tuta la spugna imbevuta di solvente e ripulì le sbavature di mastice lungo i bordi della lastra, perché ci teneva non solo a lavorare bene, ma a lasciare tutto a posto, pulito e ordinato. Il lavoro non delude , pensò, consolato dall’idea che anche dopo il trasferimento il lavoro gli desse ancora delle soddisfazioni.

Ripensando al tempo passato nel Recinto, poté elencare diverse attività che gli avevano dato soddisfazione e un senso di appagamento durante la sua vita sulla Terra, ma che avevano perso il primitivo gusto nelle nuove condizioni e nel nuovo ambiente. Forse — sorprendentemente — una delle principali era il sesso. C’era stata la sorpresa di trovare molte donne disponibili — al contrario di quanto gli era successo nella sua vita precedente — e dapprima era ricorso ai rapporti fisici come a una droga che lo aiutava ad alleviare la solitudine e la nostalgia. Donna Sinclair, quella che aveva notato lungo il corridoio mentre si recava al colloquio, era la sua partner più frequente, ma sebbene godesse del dono di una seconda giovinezza e di una rinnovata virilità, lui non poteva fare a meno di pensare: Sarebbe venuta con me anche se ero quello di prima?

L’ansito di Sammy Birkett fu soffocato da un sibilo esplosivo che ferì i timpani di Jerome. Si voltò e vide Birkett, a una trentina di metri da lui, piegato su se stesso come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. La grossa scheggia che stava portando da solo toccava terra solo in quel momento, grazie alla esigua attrazione gravitazionale.

« Idiota! » gridò Jerome correndo verso di lui, impacciato dalla tuta.

Birkett stava afflosciandosi sulle ginocchia. «Mi dispiace, signor Jerome.» Birkett parlava a singulti brevi e appena percettibili. «Credo… credo che…»

«Venite qui immediatamente, Glevdane!» gridò Jerome, ricordandosi solo dopo che il contatto radio era interrotto. Cercò allora di visualizzare un triangolo rosso, il simbolo dorriniano per emergenza, ma vi rinunciò. Un uomo che stava per morire asfissiato come Birkett doveva essere di per sé telepaticamente distinguibile. Avvicinandosi, Jerome vide che si stringeva il braccio sinistro, e, a giudicare dalla fila di puntini rossi, la tuta aveva ceduto dal polso fin oltre il gomito. Birkett alzò la testa verso Jerome e la luce di un globo appeso al soffitto ne rivelò la faccia contorta. Le labbra si muovevano, ma restava talmente poca aria nella tuta che non riusciva ad emettere suoni, e un attimo dopo perse conoscenza. Jerome si chinò a sostenerlo e lo posò a terra.

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