Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Se fossi stato più intelligente, Mando non sarebbe morto. Non solo più intelligente: più onesto, anche. Avevo mentito, avevo tradito Kathryn, Tom, Pa’… tutta la valle, a causa del voto. Tutti, tranne Steve: e lui era a Catalina. Che stupido ero stato! Avevo creduto d’essere furbo, a farmi dire da Add l’ora e il luogo dello sbarco, e avevo guidato quelli di San Diego a tendere l’imboscata.

Ma eravamo stati noi a caderci. Bastava pensarci, era evidente. Quelli non avevano improvvisato la difesa: erano pronti ad accoglierci. E chi li aveva avvertiti, se non Addison Shanks? Lui sapeva che eravamo a conoscenza dello sbarco, doveva solo dire agli sciacalli che sapevamo e loro avrebbero potuto prepararsi. Tenderci un’imboscata.

Bastava pensarci, era chiaro come il sole nel cielo, ma non mi era proprio venuto in mente, fino a ora, mentre risalivo il sentiero del fiume e riflettevo sull’accaduto. Avevamo teso la rete e ci eravamo finiti dentro noi.

E quelli di San Diego ci avevano assegnato una posizione più a nord della loro, perché se qualcosa fosse andato storto, saremmo stati gli ultimi a traversare il ponte e avremmo attirato l’attenzione, mentre loro fuggivano. Ci avevano gettati fra i piedi del nemico per farlo inciampare.

Eravamo stati traditi due volte. E io mi ero dimostrato d’una stupidità incredibile.

E la mia stupidità era costata a Mando la vita. Rimpiansi ferocemente (ora che il funerale era passato) di non essere morto io al posto suo. Ma sapevo che rimpiangere il passato è come tirare sassi alla luna (così ero salvo).

Un paio di giorni più tardi, girando sulla spiaggia e continuando a riflettere, divenni curioso e risalii il Basilone fino alla casa degli Shanks. Non volevo parlare con loro, volevo solo vederli. Se li avessi visti in faccia, avrei capito subito se avevo torto o ragione a pensare che fosse stato Add a mettere in guardia gli sciacalli; e allora li avrei lasciati perdere per sempre.

La casa era bruciata. Non c’era nessuno, lì intorno. Scavalcai le assi carbonizzate, i soli resti della parete meridionale; per un po’ presi a calci il mucchio di tizzoni, sollevando cenere e polvere. Erano andati via da un pezzo. Mi fermai al centro di quello che era stato il magazzino, a guardare i mucchietti neri per terra. Nessun oggetto metallico. A quanto sembrava, avevano svuotato il locale di ogni cosa utile, prima di dargli fuoco. Senza dubbio erano stati aiutati a trasferirsi a nord. Visto che avevo scoperto i suoi traffici e che ero sopravvissuto, Add aveva certo preferito trasferirsi a nord e unirsi totalmente agli sciacalli. Ed era logico che non ci lasciasse una casa come la sua.

La parete nord esisteva ancora: assi annerite e consunte dal fuoco, pronte a crollare; il resto era cenere, o tizzoni sparsi qua e là. I pali metallici del traliccio elettrico, di nuovo visibili, sporchi di nero, si alzavano fino alla piattaforma metallica che un tempo sorreggeva i cavi. Mi sentii vuoto come sempre. Era stata una buona casa. Loro non erano brave persone, ma la casa era buona. E in qualche modo, fermo fra i resti carbonizzati, non riuscivo a provare risentimento contro Add e Melissa, anche se un attimo prima ci sarei riuscito facilmente. Non era divertente appiccare il fuoco a una buona casa come quella e fuggire. Erano davvero in una situazione così brutta? Lavoravano con gli sciacalli, certo. Ma tutti noi, in un modo o nell’altro, facevamo affari con loro. Anche aiutare i giapponesi a sbarcare era poi una cosa così brutta? Glen Baum l’aveva fatto, in quel suo libro (se c’era qualcosa di vero); e nessuno gli aveva dato del traditore. Add e Melissa volevano solo qualcosa di diverso da quel che volevo io. Per certi aspetti, erano migliori di me. Almeno, mantenevano le promesse; conservavano intatta la lealtà.

Tornai nella valle, più depresso che mai. Mi fermai da Doc: Tom dormiva, aveva l’aspetto di un morto; Doc, con gli occhi infossati, seduto da solo al tavolo della cucina, fissava la parete. Mi affrettai a scendere al fiume, attraversai il ponte, mi fermai alla latrina dei bagni, mi liberai. Mentre uscivo, entrò John Nicolin. Mi lanciò un’occhiata astiosa e mi sfiorò senza dire una parola.

Così andai alla spiaggia. E il giorno dopo vi tornai. Cominciavo a conoscere l’esercito di piovanelli: quello con una zampa sola, quello nero, quello con il becco rotto. La marea venne avanti, sommerse il tavolo da pranzo delle mosche. Si ritirò, scoprì di nuovo le alghe bagnate. I gabbiani volteggiavano e stridevano. Un pellicano atterrò sulla sabbia bagnala e rimase a guardarsi intorno con riserbo. Ma i frangenti erano grossi, quel giorno; e il pellicano fu lento a sottrarsi all’onda in arrivo; fu colpito, s’allontanò in fretta, cadde, agitò le lunghe ali, il becco, il collo, le zampe, in una complicata capriola. Risi, mentre si rialzava, bagnato, scarmigliato, arruffato; ma lui zampettò con aria buffa, corse per prendere lo slancio e planò giù sulla spiaggia; dopo le risa, piansi.

Tornarono le nubi. Una muraglia grigia era ferma all’orizzonte; il vento ne staccava dei pezzi e li spingeva verso terra. Finalmente era cambiato. Il Santa Ana aveva tenuto al largo le nubi per più di una settimana; ora quelle tornavano a reclamare il loro territorio. All’inizio erano in poche, sfrangiate e trasparenti, tranne al centro. Le nuvole generano nuvole, però; nel pomeriggio avanzarono, più scure e più basse, finché tutta la muraglia non prese velocità e avanzò dall’orizzonte, acquistando un colore azzurro cupo e coprendo il cielo, come un lenzuolo. L’aria divenne fredda, i gabbiani sparirono, il vento di mare crebbe d’intensità. Le nubi divennero tempestose, sputarono fulmini in mare e poi sulla terraferma, facendo sfrigolare le onde e abbattendo alberi sui costoni. Seduto sopra un tronco grigio e consunto, guardai le prime gocce butterare la sabbia. Sotto la pioggia, la superficie color ferro dell’oceano perdette lucentezza. Mi strinsi nella giacca e testardamente rimasi lì seduto. La pioggia si mutò in grandine. I chicchi caddero fino a formare uno strato chiaro sopra i granelli rossicci: una spiaggia di sabbia, coperta da una sabbia di vetro.

Abbandonai la spiaggia, risalii il sentiero della scogliera. La grandine si mutò in pioggia. Mani in tasca, percorsi il sentiero del fiume e lasciai che la pioggia mi colpisse in faccia. Mi scorreva dentro la giacca, ma non importava. Rimasi all’aperto, camminai di proposito nelle radure e nei tratti privi d’alberi, ricavandone piacere proprio per la stupidità di quel comportamento.

Continuai a risalire la valle finché non mi trovai ai margini della piccola radura adibita a cimitero. La pioggia ruscellava da nuvole ferme proprio lì sopra; nella fioca luce grigia, gli alberi sgocciolavano rumorosamente. Attraversai la piccola sezione accanto al fiume, dove erano sepolti i giapponesi gettati a riva dal mare. Le croci di legno dicevano: Cinese ignoto. Morto nel 2045, o quale che fosse la data. Nat aveva fatto un buon lavoro, a intagliare lettere e numeri.

Nella radura vera e propria c’erano i nostri morti. Camminai nel fango appiccicoso, da tomba a tomba, e contemplai i nomi. Vincent Mariani, 1992-2038. Un cancro se l’era portato via. Ricordavo che giocava a nascondino con Kathryn, Steve e me, quando Kathryn era piccolissima. Arnold Kalinski, 1970-2026. Era giunto nella valle già malato, diceva Tom; Doc aveva temuto che ci contagiasse tutti, ma non era successo. Jane Howard Fletcher, 2002-2030. Mia madre, proprio qui. Polmonite. Strappai qualche erbaccia alla base della croce, passai avanti. John Manley Morris, 1975-2029; Eveline Morris, 1989-2033. Cancro, per lui; lei era morta d’infezione a seguito di un taglio al palmo. John Nicolin Junior, 2016-2022. Caduto nel fiume. Matthew Hamish, 2034. Deforme. Mark Hamish, 2036. Luke Hamish, 2039. Deformi entrambi. Francesca Hamish, 2044. Idem. E Jo era di nuovo incinta. Geoffrey Jones, 1995-2040; Ann Jones, morta nel 2040. Morti entrambi nell’incendio della casa. Endeavor Simpson, 2039. Deforme. Defiance Simpson, 2043. Deforme. Elizabeth Costa, 2000-2035. Malattia imprecisata: Doc non era mai riuscito a scoprire quale. Armando Thomas Costa, 2033-2047.

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