Ce n’erano altri, ma mi fermai ai piedi della tomba di Mando, guardai la croce intagliata di recente. Anche la Bibbia dice che all’uomo tocca una vita di tre ventine e dieci; eppure era tanto tempo fa. Invece eccoci qui, a morire in anticipo, come rane nel ghiaccio.
Il terriccio nella fossa di Mando si era assestato e si abbassava di più sotto la pioggia. Andai alla buca aperta in fondo alla radura, presi la pala che Nat lascia sempre lì; cominciai a portare terra sulla tomba, una palata dopo l’altra. Il fango si appiccicava alla pala, il terriccio si spargeva malamente, non compattava bene. Pessima idea. Gettai la pala nella buca, sedetti sull’erba accanto alla tomba, dove potevo stringere l’asta orizzontale della croce. Rane nel ghiaccio. La pioggia diluiva il fango, creava pozze. Guardai in giro la nostra messe di croci, tutte sgocciolanti nella grigia luce del pomeriggio. Non è giusto, pensai. Non dovrebbe essere così. Mando era lì sotto di me, eppure non c’era; era morto, svanito, non esisteva più. Non sarebbe tornato. Presi una manciata di fango, lo strizzai fra le dita. Mando era cambiato, da persona viva a niente più che fango nel mio pugno. E la stessa cosa sarebbe accaduta a tutti quelli che conoscevo. E a me. Ogni nostra azione non avrebbe fatto differenza; niente sarebbe durato, qualsiasi cosa dicessimo. Non capivo il punto. Era troppo strano che vivessi e lavorassi sulla terra finché non mi spezzavo, e poi diventassi semplice fango. Rimasi lì, sotto la pioggia, a strizzare fango fra le dita. Squish squish. Squish, squish.
Ma il vecchio sopravvisse.
Il vecchio sopravvisse. Non l’avrei mai creduto. Penso che tutti siano rimasti sorpresi, perfino Tom. So che Doc rimase stupito. «Non l’avrei mai creduto» mi disse, allegro, quando andai a trovarli, un mattino nuvoloso. «Ho dovuto strofinarmi gli occhi e darmi pizzicotti. Ieri mi sono alzato e lui era seduto qui al tavolo della cucina, lamentandosi: «Dov’è la colazione? Dov’è la colazione?» Certo, per tutta la settimana i polmoni gli si erano ripuliti; ma a dire la verità non ero sicuro che bastasse. Eppure era lì a tormentarmi.»
«A proposito» disse Tom, dalla stanza da letto «dov’è il tè? Non rispetti più le misere richieste di un paziente?»
«Se lo vuoi caldo, chiudi il becco e sii paziente!» lo rimbeccò Doc, con un sogghigno nella mia direzione. «Cosa ne dici di un po’ di pane per accompagnarlo?»
«Logico, no?»
Entrai nell’ospedale. Tom, seduto sul letto, batteva le palpebre come un passerotto. «Come ti senti?» chiesi timidamente.
«Affamato.»
«Buon segno» disse Doc, dietro di me. «Ritorno dell’appetito, buon segno davvero.»
«A meno d’avere un cuoco come il mio» replicò Tom.
Doc sbuffò. «Non farti fregare, divora proprio come prima. Gli piace, è evidente. Prima o poi vorrà fermarsi qui solo per come cucino.»
«Sì, quando gli asini voleranno!»
«Oh, che ingratitudine!» esclamò Doc. «E pensare che ho dovuto quasi sempre cacciargli il cibo in gola. Sembravo mamma passerotto. Forse dovevo predigerirglielo…»
«Ah, sai che gioia» gracchiò Tom. «Mangiare il vomito, puah! Porta via, ho perso l’appetito.» Bevve rumorosamente un poco di tè, imprecò perché era troppo caldo.
«Be’, è stata dura farlo mangiare, te lo dico io. Ma guardalo, ora!» Doc guardò con soddisfazione Tom divorare pezzi di pane, nel suo solito modo da morto di fame. Alla fine Tom mi sorrise, mettendo in mostra i denti mancanti. Le sue povere gengive avevano patito, durante la malattia, ma gli occhi castani mi guardarono con lo stesso sguardo chiaro d’una volta. Sentii che la faccia mi si allargava in un sorriso.
«Ah, sì» disse Tom «non c’è niente di meglio di un sistema immunitario mutazionale anomalo, te lo garantisco. Sono robusto come una tigre. Robustissimo! Comunque, scusatemi se schiaccio un pisolino.» Tossì un paio di volte, scivolò sotto le lenzuola e si addormentò, con la rapidità con cui si spegnevano i suoi accendini.
Questa era finita bene. Tom restò a casa di Doc un altro paio di settimane, più che altro per tenergli compagnia, immagino, visto che ogni giorno riacquistava le forze e certo non amava molto l’ospedale. E un giorno Rebel bussò alla porta e mi chiese se volevo dare una mano a riportare a casa Tom e la sua roba. Volentieri, risposi; attraversammo il ponte, chiacchierando e scherzando. Il sole giocava a nascondino fra le nuvole alte; dal sentiero dalla casa di Doc scendevano Kathryn e Gabby, Kristen e Del e Doc, ridendo ai saltelli di Tom in testa alla fila.
«Unitevi alla folla» ci gridò Tom. «Giovani e vecchi, un’alleanza naturale per una festa, statene certi.»
Kathryn mi diede i libri del vecchio, pesanti nella sacca di tela; minacciai di gettarli dal ponte mentre passavamo. Tom agitò verso di me il bastone da passeggio. Facemmo una bella camminata su per l’altro pendio della valle. Non avevo mai osato pensare a un giorno come questo: eppure era arrivato, proprio qui a portata di mano, dove potevo afferrarlo.
Arrivati in casa, il vecchio divenne davvero allegro e chiassoso. Con un gesto teatrale, diede un calcio alla porta, che rimase chiusa.
«Gran bella serratura, vedete come tiene?»
Soffiò via la polvere dal tavolo e dalle poltrone, fino a riempire l’aria. Sul pavimento c’era una pozza, che indicava dove il tetto perdeva di nuovo. Tom si accigliò e mise il broncio.
«La casa è stata trattata male, malissimo. Voi della manutenzione siete tutti licenziati.»
«Oh-ho» disse Kathryn. «Adesso dovrai riassumerci e pagarci, se vuoi che ti aiutiamo a fare le pulizie.»
Aprimmo tutte le finestre, lasciammo entrare la brezza. Gabby e Del strapparono un po’ d’erbacce; Tom, Doc e io risalimmo la pista del costone per dare un’occhiata agli alveari. Nel vederli, Tom imprecò: ma non erano poi in cattivo stato. Per un po’ restammo a dare una pulita, ma all’ordine di Doc tornammo a casa. Dal camino uscivano ondate di fumo bianco come le nuvole; l’ampia finestra sul davanti era stata lavata; Gabby, in equilibrio sul tetto, con martello chiodi e scandole, dava la caccia alla fessura e gridava perché da sotto gli dessero indicazioni. Dentro, in piedi sopra uno sgabello, Kathryn batteva il tetto servendosi di un manico di scopa.
«Ecco» disse Tom «come spuntano le fessure!»
Kathryn cercò di colpirlo con il manico di scopa, perse l’equilibrio e saltò a terra, mentre lo sgabello cadeva. Con uno strillo Kristen la scansò e smise di spolverare. Rebel tolse il bricco dal fornello. Ci riunimmo nel soggiorno a bere un po’ del tè aromatico di Tom.
«Salute!» brindò Tom, sollevando in alto il boccale fumante; lo imitammo e brindammo con lui.
Quella sera, quando tornai a casa, Pa’ mi disse che John Nicolin era venuto a chiedere come mai non andavo più a pesca. La mia parte di pesce era la nostra principale fonte di sostentamento e Pa’ era turbato. Così dalla mattina seguente ripresi a uscire a pesca, un giorno dopo l’altro, se il tempo lo permetteva. Sulle barche era evidente che l’anno continuava. Il sole tagliava il cielo in un arco sempre più basso; venne la corrente fredda e si fermò. Spesso, di pomeriggio, grosse nubi scure rotolavano dal mare sopra di noi. Le mani bagnate dolevano per il freddo e si arrossavano per la fatica di tirare le reti; i denti battevano, la pelle si screpolava per i geloni. Ci scambiavamo solo grida rauche riguardanti la pesca, perché ciascuno cercava di risparmiare energie. La mancanza di chiacchiere mi andava bene. Venti di burrasca ci logoravano, mentre remavamo per tornare a riva, nel crepuscolo precoce. Sotto le nubi livide le scogliere assumevano una sfumatura marrone, i pendii montuosi mostravano il verde nerastro dei pini più scuri, l’oceano era grigio come il ferro. In quella desolazione, i falò giallastri sulla spianata del fiume brillavano come fari, ed era un piacere vederli, oltrepassata la prima curva. Dopo avere tirato le barche contro la scogliera, mi rannicchiavo con gli altri attorno ai fuochi, finché non mi ero riscaldato abbastanza da far ritorno a casa. Mentre si scaldavano (mani praticamente sulle fiamme), gli uomini scambiavano le solite chiacchiere, ma io non vi prendevo parte. Ero contento che il vecchio stesse bene e fosse tornato a casa; ma la verità è che fino a quel momento la cosa non mi rallegrò poi tanto la vita d’ogni giorno. Mi sentivo male gran parte del tempo e vuoto sempre. Quando ero fuori a pesca e lottavo per obbligare le dita gelate e disobbedienti a tenere strette le reti, pensavo alle imprecazioni di Steve in simili occasioni e desideravo ardentemente che fosse con noi. E poi, al termine della pesca, sulla scogliera non c’era nessuna banda ad aspettarmi. Per evitare d’arrampicarmi e di sentire l’assenza degli amici, spesso giravo attorno al promontorio, fino alla spiaggia, e vagavo su quella distesa ben nota. Il giorno dopo respiravo a fondo, m’infilavo gli stivali, andavo ancora a pesca. Ma erano solo azioni automatiche.
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