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Kim Robinson: La Costa dei Barbari

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Kim Robinson La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite. È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno. La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Le serate d’autunno assunsero uno schema. Quando i pesci erano sui banchi di pulitura, mi arrampicavo sulla scogliera. Nessuna banda ad accogliermi. Con fermezza ignoravo i fantasmi che vi si radunavano e andavo a casa, in genere durante il primo buio della sera. A casa, Pa’ metteva l’olio nella casseruola e friggeva un po’ di pesce e cipolle, mentre io accendevo la lampada, preparavo la tavola e parlavo come al solito degli avvenimenti della giornata. Fritto il pesce, ci sedevamo a tavola; Pa’ diceva la preghiera di ringraziamento, poi mangiavamo pesce e pane, o patate. Dopo cena, lavavamo i piatti, sparecchiavamo, bevevamo il resto dell’acqua della cena, ci pulivamo i denti servendoci di uno spazzolino recuperato dagli sciacalli.

Poi Pa’ sedeva al tavolo da cucito e io a quello da pranzo; lui cuciva stoffa, io cucivo parole, finché eravamo d’accordo che era l’ora d’andare a letto.

Non so quante serate siano trascorse in questo modo. Nei giorni di pioggia era la stessa cosa, solo durava per tutta la giornata. Circa una volta alla settimana andavo da Tom. Poiché gli avevo promesso che avrei scritto il libro, aveva acconsentito a darmi ancora lezioni. Mi faceva studiare l’Otello. Ero sicuro di sapere perché. Credevo d’avere molto da rimproverarmi, ma Otello! L’unico personaggio di Shakespeare più stolto di me.

… O stolto! stolto! stolto!
Quando riferirai queste imprese sfortunate,
parla di me come sono. Non attenuare nulla,
non scrivere nulla in malizia. Allora devi parlare
di uno che amò non saggiamente, ma troppo bene;
di uno non facile alla gelosia, ma, manipolato,
confuso all’estremo; di uno le cui dita
(come il misero indiano) gettarono una perla
più preziosa della sua tribù; di uno i cui occhi sottomessi,
per quanto non adusi a sciogliersi,
lascian cadere lacrime, veloci come gli alberi d’Arabia
la resina medicinale. Scrivi di questo…

«Allora c’erano alberi d’eucalipto, nell’Arabia» dissi a Tom, al termine.

Lui rise. E quando, prima d’andarmene, gli chiesi altre matite, sghignazzò follemente e andò a recuperarmele.

Trascorsero i giorni. Più m’inoltravo nella storia dell’estate, più questa era lontana nel tempo e meno la capivo. Confuso all’estremo. Un giorno di pioggia, Pa’ e io lavoravamo di pomeriggio e cercavamo di tenere aperta la porta per avere luce; ma faceva troppo freddo, anche con la stufa accesa, e la pioggia continuava a entrare quando il vento cambiava direzione. Fummo costretti a chiudere la porta e ad accendere le lampade. Pa’ era chino sulla giacca che confezionava in quel momento. Muoveva le mani con la rapidità di uno schiocco delle dita, mentre faceva le asole; eppure le asole, perfettamente spaziate, seguivano una linea che pareva quasi tracciata con il righello. Pa’ s’infilò il ditale e prese a cucire. Infilava l’ago e tirava, infilava e tirava… i punti a croce comparivano come X perfette, il filo si muoveva sotto una tensione costante… non avevo mai fatto attenzione al lavoro di cucito. Le dita callose si muovevano con la leggerezza di ballerine. Sembrava quasi che fossero più intelligenti di lui… e mi dispiacque pensare una cosa del genere. E poi, era sbagliata. Pa’, non un altro, diceva alle dita cosa fare. Da sole, non avrebbero fatto niente. Era più giusto dire che l’intelligenza di Pa’ stava nel modo in cui cuciva, o qualcosa di simile. Da quel punto di vista, Pa’ era intelligente davvero. Mi piacque quel modo di esprimere il concetto e lo misi per iscritto. Punti di pensiero. Intanto le sue abili dita dominavano l’ago e lo spingevano a scivolare fra i pezzi di stoffa e a tenerli insieme, a tendere il filo, girare, forare di nuovo.

Pa’ sospirò. «Non ci vedo più bene come una volta» disse. «Vorrei che fosse una giornata di sole. L’estate mi manca moltissimo.»

Schioccai la lingua. Era irritante sedere in una scatola buia in pieno giorno, sprecando del buon olio di lampada. Più che irritante, in verità. Mi sentii cadere le braccia, mentre facevo l’inventario delle pareti spoglie della baracca.

«Merda» borbottai, disgustato.

«Cosa?»

«Ho detto: Merda.»

«Perché?»

«Ah…» Come potevo spiegarglielo, senza che ci restasse male anche lui? Aveva sempre accettato senza un lamento la nostra misera condizione. Scossi la testa. Mi scrutò curiosamente.

D’un tratto mi venne un’idea. Balzai sulla sedia.

«Che c’è?» disse Pa’, guardandomi.

«Ho un’idea.» M’infilai gli stivali e la giacca.

«Piove che Dio la manda» disse Pa’, dubbioso.

«Non vado lontano.»

«Va bene. Stai attento.»

Ero già alla porta. Tornai indietro, gli diedi un colpetto sul braccio. «Sì. Non sto via molto, continua a cucire.»

Attraversai il ponte e risalii il Basilone fino alla casa degli Shanks. Presi a calci i mucchi di legno bruciato. Avevo ragione: sotto la cenere zuppa d’acqua, contro la parete nord, c’era un pezzo rettangolare di vetro, lungo un paio di metri e quasi altrettanto largo. Una delle loro numerose finestre. Un angolo era ondulato ai bordi e un po’ butterato — pareva che si fosse fuso un poco nell’incendio — ma non m’importava. Lanciai al cielo un grido di gioia, leccai le gocce di pioggia e con grande cautela tornai nella valle, reggendo davanti a me il vetro gocciolante. Come il parabrezza di un’automobile, eh? Mi fermai a bussare alla porta della bottega di Rafael. Lui era dentro, nero di grasso, intento a martellare come Vulcano.

«Rafe, ti dispiace aiutarmi a mettere questo vetro alla nostra baracca?»

«Figuriamoci» rispose, guardando la pioggia. «Vuoi metterlo subito?»

«Be’…»

«Aspettiamo una bella giornata. Dovremo andare dentro e fuori parecchio.»

Con una certa riluttanza acconsentii.

«Mi sono sempre chiesto perché non hai mai fatto una finestra a quella casa» disse.

«Non ho mai avuto il vetro!» risposi allegramente. E me ne andai.

Due giorni dopo avevamo una finestra alla parete sud; la luce entrava a illuminare ogni cosa, a inargentare la polvere nell’aria. Ce n’era un mucchio, di polvere.

Grazie a Rafael, avevamo anche un bel davanzale. Rafael scrutò l’angolo ondulato del vetro. «Ehi, pare quasi che si sia fuso» disse. Annuì d’approvazione e se ne andò fischiettando, arnesi in spalla. Pa’ e io girammo per la casa, facendo pulizia e guardando fuori, uscendo fuori per guardare dentro.

«È fantastico» disse Pa’, con un sorriso beato. «Henry, hai avuto davvero una bella idea. Posso sempre contare su di te, per le belle idee.»

Celebrammo con una stretta di mano. Sentii la forza della sua destra, mi diede un senso di calore. Bisogna avere l’approvazione del proprio padre. Continuai a muovere la mano su e giù, finché lui non scoppiò a ridere.

Mi ricordò Steve. Lui non aveva mai avuto l’approvazione di suo padre e non l’avrebbe avuta mai. Doveva essere come andare in giro con una spina nella scarpa. Lo sento nel piede della mia mente, Horatio. Cominciai a credere di capirlo meglio, e nello stesso tempo sentivo di non capirlo affatto… il vero, autentico Steve, voglio dire. Riesco a ricordarne bene il viso solo nei sogni, quando mi ritorna perfettamente. Ed era dura descriverlo esattamente nel libro; il modo come riusciva a farti ridere, a farti sentire sicuro di vivere davvero. Mi sedetti a lavorarci, alla luce della nostra finestra nuova.

«Dovrò cucire un bel paio di tendine» disse Pa’; guardò assorto la finestra, prendendo nella mente le misure.

Qualche tempo dopo mi unii al piccolo gruppo che andava all’ultimo raduno di scambio dell’anno. I raduni invernali erano assai diversi da quelli estivi; c’era meno gente e si concludeva un numero minore di scambi. Stavolta c’era una pioggerella continua; tutti non vedevano l’ora di scambiare quel che avevano portato e di andarsene. Le discussioni sui prezzi si mutarono rapidamente in litigi e a volte in zuffe. Gli sceriffi avevano il loro bel da fare. Parecchie volte udii uno di loro gridare: «Fate lo scambio e sloggiate! Allora, cosa c’è da litigare?»

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