Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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«La loro parte!» replicai, sprezzante. Però mi aveva scosso. Mi aveva fatto ricordare che piani militari grandiosi come il mio si riducevano in caos e sofferenza e morti insensate. In un attimo tornai nell’incertezza completa e l’idea ardita mi parve solo stupidità all’ennesima potenza. Certo Tom me lo lesse in faccia, perché ridacchiò e con il braccio mi circondò le spalle.

«Non crucciarti, Henry. Siamo americani: per molto, molto tempo non è mai stato chiaro cosa ci si aspetta da noi.»

Un’altra bianca montagna d’acqua, scagliandosi contro di noi, si frantumò in una miriade di spruzzi. Un altro progetto si sbriciolava, era spazzato via. «Immagino di no» replicai, scontroso. «Fin dai tempi di Shakespeare, eh?»

«Ehm!» Tom si schiarì la gola un paio di volte, ritrasse il braccio, si scostò un briciolo da me. «Uh, a proposito» disse, guardandomi con ansia «mentre parliamo di storia e, uh, di menzogne, dovrei fare una rettifica. Be’, ah… Shakespeare non era americano.»

«Oh, no» mormorai. «Vuoi scherzare.»

«No. Eh…»

«E l’Inghilterra, allora?»

«Be’, non era lo stato guida dei primi tredici.»

«Ma me l’hai mostrata sulla carta geografica!»

«Quella era solo l’isola Martha’s Vineyard, purtroppo.»

Ero rimasto a bocca aperta. Me ne accorsi, la chiusi di scatto. Tom batteva i talloni, a disagio. Non gli avevo mai visto un’aria così infelice. Evitava di guardarmi negli occhi. Poi indicò qualcuno e disse, con sollievo: «Sembra John, no?»

Mi girai a guardare. Lungo la cresta della scogliera, dalle parti di Concrete Bay, scorsi una sagoma tozza che camminava mani in tasca. Era proprio John Nicolin: per quanto lontano, lo si riconosceva subito. Veniva rapidamente nella nostra direzione e guardava il mare. Nei giorni in cui non era possibile uscire a pesca, quando non lavorava alle barche, stava quasi sempre sulla scogliera, in particolare se il tempo era buono ma il mare grosso ci bloccava. In queste occasioni sembrava vittima di un grave affronto personale: andava avanti e indietro per la scogliera, cupo in volto, e guardava le onde; trattava scorbuticamente chiunque fosse tanto sfortunato da avere a che fare con lui. Il mare grosso ci avrebbe tenuti a riva per due giorni almeno, forse quattro; ma lui fissava le muraglie bianche e fumanti, come se cercasse un segno di giunzione o una corrente di risucchio che offrissero una via per uscire in mare. Mentre veniva vicino, le gambe dei calzoni gli sbattevano e i riccioli sale e pepe gli sventolavano sulle spalle come una criniera. Guardò dalla nostra parte; nel vederci, esitò; poi proseguì con il suo solito passo. Tom agitò la mano a salutarlo, gli impedì di fingere di non averci visti.

John si fermò a qualche metro da noi, le mani sempre in tasca; ci scambiammo un cenno e un borbottio di saluto. Venne più vicino. «Sono contendo di vedere che ti sei ripreso» disse a Tom, in tono spiccio.

«Grazie. Mi sento benissimo. Fa piacere essere in piedi e muoversi.» Tom sembrava a disagio quanto John. «Bella giornata, vero?»

John alzò le spalle. «Il mare grosso non mi va.»

Una lunga pausa. John strisciò il piede come se stesse per andarsene.

«Non ti ho visto, negli ultimi due giorni» disse Tom. «Sono passato da casa tua a salutare; la signora N. mi ha detto che eri via.»

«Infatti» rispose John. Sedette sui talloni accanto a noi, gomito sul ginocchio. «Volevo parlartene. Anche a te, Henry. Sono andato a dare un’occhiata alla ferrovia che usano quelli di San Diego.»

Le ispide sopracciglia di Tom parvero arrampicarglisi sulla fronte. «Come mai?»

«Be’, da quanto dice Gabby Mendez, pare che abbiano usato i nostri ragazzi come copertura, dopo l’imboscata. E adesso salta fuori che il sindaco è rimasto ucciso. Sono andato a chiedere conferma ad alcuni amici sui Pendleton, dicono che è vero. Dicono che laggiù c’è una guerra vera e propria, fra tre o quattro gruppi che vogliono il potere del defunto sindaco. Già questa storia suona male; e se vince il gruppo sbagliato, forse saremo nei guai. Così Rafe e io ci siamo detti che bisognerebbe distruggere le rotaie una volta per tutte. Sono andato a esaminare il primo attraversamento su ponte: Rafe potrebbe far saltare i piloni, con i suoi esplosivi. E dice pure che è facile far saltare le rotaie ogni centinaio di metri.»

«Caspita!» disse Tom.

John annuì. «Una mossa drastica, d’accordo, ma penso che sia quella giusta. Se vuoi il mio parere, quella gente giù a San Diego è pazza! Comunque, volevo chiederti cosa ne pensi. Stavo già per dire a Rafe di procedere, ma…»

Ma sarebbe stata un’azione assai simile a quella fatta da Steve e da me. Tom si schiarì la voce. «Non vuoi indire una riunione a questo proposito?» chiese.

«Be’, sì. Ma prima vorrei conoscere il parere di alcuni di voi.»

«Per me è una buona idea» disse Tom. «Se ci ritengono colpevoli dell’imboscata, e se la spunta il gruppo di super-patrioti… sì, è una buona idea.»

John annuì, parve soddisfatto. «E tu, Henry?»

Mi colse di sorpresa. «Direi di sì. Forse un giorno o l’altro vorremo utilizzare anche noi quelle rotaie. Ma non accadrà tanto presto» aggiunsi (John aveva socchiuso gli occhi) «e per prima cosa dobbiamo preoccuparci di tenerli lontano. Sono d’accordo.»

«Bene. Probabilmente dovremmo cercare di discutere con loro, al raduno di scambio, se ce ne sarà l’occasione. E mettere in guardia gli altri, anche.»

«Un momento» disse Tom. «Devi ancora indire la riunione e ottenere voto favorevole. Se cominciamo a fare di testa nostra, come i ragazzi qui, diventeremo della forza di quelli di San Diego.»

«Giusto.»

Mi sentii arrossire. John mi lanciò un’occhiata. «Non intendo fartene una colpa.»

Con un ciottolo graffiai l’arenaria. «La colpa ce l’ho anch’io come qualunque altro.»

«No.» Si alzò, si morse il labbro. «Era un piano di Steve, c’è il suo segno dappertutto.» La voce gli divenne più tesa, salì di tono.

«Quel ragazzo ha sempre voluto tutto alla sua maniera, fin dall’inizio. Come strillava, se la madre non scattava a ogni suo capriccio!» Con una scrollata lasciò perdere i ricordi, mi guardò di traverso. «Ma secondo te, sono io quello da biasimare, immagino. Sono stato io a spingerlo via.»

Scossi la testa, anche se una parte di me pensava proprio quello. Ed era vero, in un certo senso. Ma non del tutto. Non riuscivo a rendere chiaro il concetto neppure a me stesso.

John spostò lo sguardo su Tom, ma il vecchio si limitò a stringersi nelle spalle. «Non so, John, non so proprio. Ognuno ha il suo carattere, no? Chi ha spinto Henry a desiderare tanto di leggere i libri? Nessuno di noi. E chi ha spinto Kathryn a coltivare il grano e a farne pane? Nessuno di noi. E chi ha spinto Steve a voler vedere il mondo? Nessuno. L’avevano dentro dalla nascita.»

«Mmm» disse John, serrando le labbra. Non era convinto, anche se restava assolto, anche se un attimo prima aveva detto le stesse cose. John credeva sempre che le sue azioni avessero un effetto. E con suo figlio, che per una vita era stato sotto le sue cure… gli leggevo in viso che pensava proprio questo, con la stessa chiarezza con cui si interpreta la faccia di un bambino. Fu attraversato da un’ondata di dolore, ma si scosse subito e con un cupo schiocco di lingua contro i denti ricordò a se stesso che eravamo lì. Si richiuse in sé.

«Be’, ormai è passato» disse. «Non sono capace di filosofare, sai.»

Così la faccenda fu chiusa. Ai forni, pensai, una conversazione del genere fra le donne si sarebbe svolta in ben altro modo: rimuginiò su ogni particolare degli eventi e delle motivazioni, discussioni, strilli, lacrime e via di seguito; mi veniva da ridere. Noi uomini siamo gente parca di parole, quando si tratta di cose importanti. John si era messo a camminare in cerchio, come avevo fatto io poco prima; ben presto il suo nervosismo ci contagiò, tanto da farci alzare a sgranchirci. Dopo un poco giravamo tutt’e tre come gabbiani, mani in tasca, guardando i marosi e segnando a dito le onde particolarmente alte.

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