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Kim Robinson: La Costa dei Barbari

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Kim Robinson La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite. È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno. La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Nel guardare indietro verso la valle, ora piena di alberi gialli fra i sempreverdi, mi fermai. «Ci serve una radio» dissi. «Come quella di San Diego. Una radio funzionante. Riescono a captare trasmissioni da centinaia di chilometri di distanza, giusto?»

«Alcune, sì» disse Tom. Anche lui e John si fermarono.

«Se ne avessimo una, potremmo captare le navi giapponesi. Anche senza capire la lingua, sapremmo dove si trovano. E ascolteremmo Catalina, forse, o anche altre parti del paese, altre città.»

«Le radio più potenti ricevono e trasmettono a mezzo mondo» commentò Tom.

«Lontano, comunque» lo corressi; e Tom sogghignò. «Avremmo orecchie, capite: così scopriremmo cosa succede là fuori.»

«Mi piacerebbe avere una radio del genere» ammise John. «Però non vedo come procurarcela.»

«Ne ho parlato a Rafael. Gli sciacalli, dice lui, portano sempre ai raduni radio e parti di ricambio. Al momento lui non sa niente di radio, ma pensa di riuscire a produrre l’energia necessaria a farne funzionare una.»

«Sicuro?» chiese Tom.

«Già. Lavora un mucchio sulle batterie. Gli ho detto che gli avremmo procurato un manuale e l’avremmo aiutato a leggerlo; e che gli avremmo dato roba da scambiare con parti di radio, ai raduni di questa estate; era entusiasta dell’idea.»

John e Tom si scambiarono un’occhiata, come se condividessero un pensiero che non seppi interpretare. John annuì. «Dovremmo farlo. Non possiamo scambiare pesce per questo genere di roba, naturalmente, però troveremo altro… crostacei, forse, o i cestini.»

Un’altra serie di onde gigantesche rotolò verso di noi, inondò la spiaggia fino alla base della scogliera, riportò la nostra attenzione sui marosi.

«Saranno alte almeno dieci metri» ripeté Tom.

«Credi?» disse John. «Pensavo che questa scogliera fosse alta solo dodici.»

«Dodici rispetto alla spiaggia. Ma il cavo dell’onda è più basso. E la cresta è alta quasi quanto noi!» Era vero.

John disse che voleva far uscire le barche anche in giornate così.

«Allora pensavi a questo, mentre camminavi qua sotto» dissi.

«Certo. Vedi, seguendo la corrente del fiume durante l’alta marea…»

«Niente da fare!» esclamò Tom.

«Guarda la turbolenza alla foce» obiettai. «Anche le onde morte saranno alte quattro metri.»

«Basterebbe la prima a rovesciarti e sommergerti» disse Tom.

«Mmm.» John era riluttante… forse aveva negli occhi un bagliore ironico. «Può darsi che tu abbia ragione.»

Girammo ancora intorno alla sporgenza, parlammo delle correnti e della possibilità di un inverno più mite. Al largo, raggi di luce trafiggevano ancora le nubi e indoravano la superficie ondulata dell’oceano. Tom indicò l’orizzonte. «Dovresti invece ritentare la pesca delle balene. Fra poco cominceranno a passare.»

John e io mandammo un gemito.

«No, sul serio, avete rinunciato troppo presto. O ne avevate arpionata una fuori del comune, oppure Rafael l’ha colpita in un punto non vitale.»

«Facile a dirsi» obiettò John. «Ma tanto non sarà mai in grado di piazzare l’arpione dove vorrebbe.»

«No, non intendo questo; solo, la maggior parte delle volte l’arpione farebbe più danno e non le lascerebbe andare tanto a fondo.»

«Se è vero» intervenni «e se aumentassimo la lunghezza della fune…»

«Non c’è spazio sufficiente, sulle barche» disse John.

Ma io pensavo a quando ne avevo discusso con Steve. «Potremmo legare il capo a una fune che corra sopra un verricello posto in un’altra barca, così ne avremmo il doppio.»

«Già» disse John, piegando di lato la testa.

«Se entrassimo nel giro delle balene, avremmo davvero un successone, al raduno» disse Tom. «Offriremmo olio, cibo per animali, tonnellate di carne.»

«Ammesso di riuscire a conservarla» disse John. Ma l’idea gli piaceva: in fin dei conti, era solo un altro tipo di pesca, no? «Sarebbe davvero possibile fare in modo che la fune dell’arpione passi da barca a barca?»

«Facile!» disse Tom. S’inginocchiò, raccolse un ciottolo, si mise a disegnare sulla sabbia. John si accucciò accanto a lui. Guardai l’orizzonte ed ecco che cosa vidi: tre raggi di sole, simili a enormi colonne bianche, ciascuno inclinato da una parte, misuravano la distanza fra le nubi grigie e il mare grigio.

23

Mentre l’anno s’avvicinava alla fine, le tempeste divennero più frequenti, al punto che più o meno ogni settimana ce n’era una a spingere a riva le onde e a devastarci, lasciando la valle a brandelli e rendendo il mare di un marrone pallido e spumoso per tutto il terriccio che vi si riversava. Quando facevamo uscire le barche, si moriva di freddo e la pesca era scarsa. Trascorsi molte giornate seduto al tavolo sotto la finestra, a leggere, o a scrivere, o a guardare l’arrivo minaccioso di nubi nere. Erano l’avanguardia: dopo, uno schiaffo di vento, a volte un basso brontolio di tuono, annunciava il grosso della tempesta. Le gocce di pioggia scivolavano sul vetro della finestra in mille rivoli che si univano e tornavano a dividersi lungo il vetro. Il tetto ticchettava o picchiettava o tamburellava sotto l’assalto. Dietro di me, Pa’ lavorava alla nuova macchina per cucire: il rn, rn, rn rn rnnnnn! rimproverava la mia pigrizia, a volte con tanto successo da spingermi a scrivere un paio di frasi. Ma era un progresso difficile; e c’erano mucchi di ore in cui mi accontentavo di masticare la matita (scrivendo sui denti poemi epici), di riflettere e guardare la pioggia, cullato dal vento e dal rumore ritmato sul tetto, dal fischio del bricco e dal rn rn, snip snip di Pa’.

La prima tempesta di dicembre portò la neve. Era un piacere starsene seduti nel tepore di casa a guardare dalla finestra i fiocchi che planavano in silenzio fra gli alberi. Pa’ guardò da sopra la mia spalla.

«Sarà un inverno duro» disse.

Non ero d’accordo. Avevamo cibo a sufficienza, anche se si trattava solo di pesce; e ogni giorno, nello stabilimento, asciugavano sempre più legna da ardere. Dopo tutta quella pioggia ero felice di vedere la neve, anche solo per il modo in cui cadeva… lentamente, sulle prime, tanto da non sembrare nemmeno vera. E poi di correre fuori, ad ammucchiarla e a fare palle di neve da tirare ai vicini… mi piaceva, la neve.

Il giorno seguente, il sole spuntò sotto un cielo azzurro chiaro (nubi a spina di pesce nella parte più alta) e la neve si sciolse prima di mezzogiorno. Ma la tempesta successiva portò altra neve, aria più gelida, una coda più lunga di nubi alte; ci vollero quattro giorni prima che il sole aspro spuntasse e la spolverata di bianco si sciogliesse e scorresse nel fiume. Diventava uno schema: valle prima biancoverde sotto cielo nero, poi neroverde sotto cielo bianco. Di settimana in settimana il freddo aumentò.

Di settimana in settimana la mia storia divenne più penosa da scrivere. Mi ci persi… smisi di crederci… scrissi dei capitoli e fui costretto a fare una passeggiata nei boschi, sul tappeto di foglie zuppo d’acqua, addolorato e irritato con me stesso. Eppure, scrissi. Passò il solstizio, passò Natale, passò Capodanno; e andai a tutte le feste, ma mi sembrava di essere nella nebbia e dopo non ricordavo con chi avessi parlato né di che cosa. Per me esisteva solo il libro… eppure era così difficile! A volte consumavo la matita più a morderla che a usarla per scrivere.

Ma venne il giorno il cui il racconto fu sulla pagina, in gran parte. Tutta l’azione conclusa, Mando e Steve scomparsi. Allora mi fermai e mi presi un giorno di riposo per leggere quanto avevo scritto. Ne rimasi così insoddisfatto che a momenti davo fuoco a quelle maledette pagine. Qui tutte quelle cose erano accadute davvero, ci avevano cambiati per tutta la vita, tuttavia quella miserabile stringa di parole non conteneva neppure metà degli eventi… come erano sembrati, quali pensieri avevano generato, come avevo reagito io. Come pisciare per far vedere com’è fatta una tempesta. Non c’era, nel libro, una parte maggiore dell’estate precedente di quanta non ce ne sia, di un albero, in una vecchia scheggia di legno gettata a riva dalla marea. E il lavoro che ci avevo messo… be’, era scoraggiante.

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